di Riccardo Bellardini

Giorgia Meloni si autodefinì “underdog” all’inizio della sua esperienza di governo, ormai un anno fa. Il termine fa riferimento ad una persona che riesce ad ottenere una posizione di rilievo, o comunque un grande successo, nonostante le scarse aspettative iniziali, nutrite da molti, rispetto alla sua effettiva riuscita.

Meloni, la donna che ce l’ha fatta, scalando in poco tempo la classifica dei consensi, la prima premier della storia repubblicana. E questo, bisogna dirlo, è stato un gran segnale per il nostro paese. Forse l’unica nota positiva in un anno di molte parole e pochi fatti. Meloni e la sua voce squillante, battagliera, che aizzava le folle, che prometteva il cambio di passo, soprattutto sull’immigrazione. Il tema su cui Giorgia aveva insistito di più in campagna elettorale. La retorica dell’invasione, fieramente espressa dal suo partito e dalla Lega, l’obiettivo di stopparla con forza, la promessa solenne di fermarla. La lotta all’immigrazione irregolare, da condurre con fermezza, facendo la voce grossa anche in Europa.

Ma qui, proprio qui, sul punto fondamentale, la premier è rimasta “underdog”. Non ce l’ha fatta. 169 mila sono gli sbarchi rispetto ai 69 mila dello scorso anno. Lei e i suoi sodali ora si guardano bene dall’allarmare il popolo per l’arrivo incontrollato, pericoloso, minaccioso dell’orda migratoria. Se fossero stati all’opposizione, ne avremmo sentite di tutti i colori. ma la Giorgia premier è diversa dalla Giorgia urlante, che non aveva lo scettro del comando. Più pacata, più moderata. Deve tenere a bada chi, all’interno del suo gruppo, non riesce a trattenersi dall’uso di toni spesso decisamente troppo estremi. L’insicurezza insita nel diverso, nell’altro da noi, nello straniero. La bandiera sempreverde delle destre ora non può essere sventolata. E certe uscite temerarie è meglio evitarle. Oggi ad esempio Piantedosi, ministro dell’Interno, non direbbe che se fosse al posto di un disperato sceglierebbe di non partire, o almeno non lo direbbe con la stessa nonchalance di un tempo. Meglio non rischiare, dato che il governo senza peli sulla lingua è ora nell’occhio del ciclone, confuso, con la sua verve rabbiosa notevolmente attenuata.

Rispetto all’insicurezza, più narrata che effettiva, utilizzata dalle destre per accrescere il consenso elettorale, esiste un’altra insicurezza vera, tangibile, legata al futuro. Quella dei migranti continua ad essere emergenza, sempre più emergenza, ma non si vedono reali soluzioni all’orizzonte, se non dichiarazioni di facciata. La premier ha ammesso che i risultati non sono stati quelli sperati, nonostante l’impegno profuso. Ma questo impegno, non ha portato a grandi cambiamenti. Il decreto Cutro, che aveva tra i suoi obiettivi quello di regolare con più decisione l’attività delle Ong straniere, in realtà ha perso le sue velleità di sottoporre a vincoli più stringenti le attività delle organizzazioni, le quali, di fronte ad emergenze drammatiche, si sono trovate ad intervenire allertate dalle nostre stesse autorità, violando così la normativa e non attenendosi al codice di condotta presente nel decreto.

Rimangono poi su un piano astratto, per il momento, gli accordi per la predisposizione di partenariati con gli stati africani, che dovrebbero portare ad una valorizzazione delle loro risorse energetiche, sull’onda di quelle che furono le idee di Mattei. Accordi orientati allo sviluppo di quei paesi, per produrre poi effetti anche sul fenomeno migratorio, contenendolo. Ma per il momento, niente di concreto.

E i rapporti con l’Europa? Ancora fumo, ancora incertezza. Tensioni che riemergono quando la questione migratoria torna ad aggravarsi, ma mancanza di vere strategie, di visioni coordinate. Eccolo l’anno di Meloni. Gli annunci e le promesse sono rimasti lì, e si avverte ancora l’eco degli slogan urlati a più riprese. Ma sull’immigrazione, problema cardine da affrontare, si è registrato il più grande intoppo per la prima premier. Il grande flop dell’underdog.

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