Lo sciopero ad oltranza dei lavoratori degli stabilimenti Usa della Ford, della General Motors e di Stellantis ci tocca molto da vicino. Innanzitutto la piattaforma rivendicativa varata dal sindacato dell’auto UAW tocca la sostanza delle condizioni nelle quali in tutto l’Occidente, e ancora di più in Italia, è precipitato il mondo del lavoro.

La prima richiesta sono aumenti retributivi del 40%. Per capirci questo vorrebbe dire in Italia almeno 750 euro di aumento al mese. È vero che il contratto dei lavoratori dell’auto avrebbe una durata di 4-5 anni, ma comunque un aumento di queste dimensioni inciderebbe profondamente sul reddito dei lavoratori.

La seconda richiesta è la riduzione dell’orario settimanale a 32 ore pagate 40. Da tempo si discute, e qua e là si sperimentano, riduzioni di un orario di lavoro che nell’Occidente è fermo da trent’anni, dalle 35 ore in Francia, che seguivano quelle della Germania. Negli ultimi anni l’orario degli stabilimenti industriali è di fatto aumentato, tra flessibilità, obbligo di turni disagiati, straordinari.

Ora negli Stati Uniti i lavoratori dell’auto tentano quel salto verso la settimana lavorativa di quattro giorni, che sarebbe il primo vero cambiamento delle condizioni di lavoro e vita della classe lavoratrice dagli anni Sessanta del secolo scorso.

La terza principale rivendicazione è il ripristino del “Cola”, il meccanismo di indicizzazione automatica dei salari rispetto all’inflazione. La scala mobile insomma, che anche gli operai americani avevano perduto negli anni del trionfo del liberismo padronale e degli accordi sindacali di resa.

Infine la piattaforma dell’UAW chiede il superamento del “doppio regime” tra anziani e nuovi assunti. Negli ultimi vent’anni in tutti gli accordi dell’auto, si è concordato che su salario, benefit, sanità e pensioni, i nuovi assunti subissero un trattamento inferiore di quasi la metà rispetto ai più anziani. Questo ha voluto dire che chi veniva assunto alla catena di montaggio, spesso con contratto precario, riceveva una paga di 15-20 dollari all’ora, mentre un operaio anziano ne prendeva 35-40.

Lavorano fianco a fianco, fanno le stessa produzione, ma hanno condizioni profondamente diverse. Ora i lavoratori dell’auto vogliono superare i contratti capestro che hanno imposto questa discriminazione schiavista verso i giovani ed i disoccupati, che in differenti forme si è affermata in tutto l’Occidente, da noi in particolare.

Uno degli artefici di questi accordi di resa sindacale fu Sergio Marchionne. Che, mentre imponeva ai lavoratori della Fiat in Italia di rinunciare al contratto nazionale, pena la delocalizzazione degli stabilimenti, operava lo stesso ricatto nei confronti dei dipendenti della Chrysler, ora Stellantis, allora appena acquisita dalla famiglia Agnelli. Come si sa, quegli accordi capestro passarono in Italia con l’accordo unanime e convinto della destra, del centrosinistra, di Cisl e Uil e con la Cgil passiva e nei fatti consenziente. Solo la Fiom e i sindacati di base di opposero.

La vittoria di Marchionne contro gli operai in Fiat avviò una nuova ondata di aggressioni alle condizioni e ai diritti del lavoro. La legge Fornero, il Jobs act, e tanti provvedimenti contro il lavoro furono ispirati dall’opera dell’amministratore delegato delegato della Fiat Chrysler FCA, Matteo Renzi lo dichiarò pubblicamente. Negli Stati Uniti però il consenso e la complicità con Marchionne furono alimentati anche dalla corruzione dei dirigenti sindacali. Lo accertò la magistratura e lo riconobbe la stessa Stellantis, patteggiando una multa di 30 milioni di euro nel 2021.

E proprio da qui, dalla rivolta dei militanti sindacali contro la corruzione dei dirigenti, è partito il movimento di lotta che ha portato alla vertenza attuale. Con una diffusa ed organizzata partecipazione, alla fine gli iscritti alla UAW hanno destituito tutto il vecchio gruppo dirigente moderato e compromesso, ed eletto una nuova direzione radicale, guidata da Shawn Fain, ex operaio elettricista. Così sono nate la piattaforma e lo sciopero che progressivamente si va estendendo a tutti gli stabilimenti di tutte e tre le grandi compagnie automobilistiche, per la prima volta nella storia del paese.

È stata una scelta consapevole, quella di risalire da decenni di sconfitte e di affrontare così, abbandonando la linea della rinuncia e passando all’attacco, il passaggio all’auto elettrica. Che questa volta dovrà essere pagato dai padroni e non dai lavoratori. È chiaro allora perché questa lotta riguardi tutto il mondo del lavoro, negli Usa, nei grandi paesi industrializzati, e in particolare in Italia, dove il peggioramento dei salari e delle condizioni di lavoro è stato il più grave.

Anche qui in Italia si tratta di rovesciare il trentennale moderatismo sindacale complice e di ricominciare a rivendicare. Con richieste che partano da ciò che hanno perso e di cui hanno bisogno i lavoratori; e non dalle briciole che intendono spargere i ricchi.

“Negli ultimi 40 anni i miliardari si sono presi tutto lasciando tutti gli altri azzuffarsi per le briciole. Non siamo noi il problema, l’avarizia dei padroni è il problema”. Così ha detto il leader UAW Shawn Fain. Dopo quarant’anni di lotta di classe dall’alto, dei ricchi contro i poveri, riparte quella dal basso. Il grande successo dello sciopero di otto ore contro lo sfruttamento alla Stellantis, ex Fiat, di Melfi, mostra che il sistema Marchionne si sta rompendo anche qui.

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