Se non si reputa intollerabile l’assunto che la fine della vita non è un lavacro purificatore di ogni magagna e il viatico per la beatificazione, vorrei riferire il momento in cui trovai la chiave che spiega il senso esistenziale della quasi secolare carriera pubblica di Giorgio Napolitano, classe 1925. Me la fornì durante un talk show Raffaella Paita, ancora post-comunista e non ancora arruolata tra le amazzoni di Matteo Renzi, quando spiazzò noi critici con l’affermazione una volta tanto non strumentale, sincera: “Lasciatemi rivolgere un pensiero al MIO presidente”. Quel “SUO presidente” che si riferiva – appunto – all’allora Capo dello Stato Napolitano, vero antesignano della mutazione genetica che, dalle nostre parti, trasformò gradatamente la classe politica del secondo dopoguerra in un ceto liberato da ogni vincolo con il resto della società: la corporazione guardiana dell’ordine partitocratico; preposta al compito di tenere a bada un Paese indisciplinato, pericolosamente irrequieto, e – al tempo stesso – tutelare i preminenti interessi e l’insindacabilità di professional della politica, intesa come ascensore per scalate sociali.

Sicché il comunista Giorgio Napolitano smarrisce giovanissimo la fede nel comunismo, pur mantenendo iscritta nel proprio dna politico la totale adesione ai principi ispiratori del proprio partito: il Pci, quale magistero per la costruzione di mentalità che declinavano l’idea elitista leniniana del rivoluzionario di professione nella lezione pedagogica togliattiana: il nucleo dirigente del partito in quanto tale illuminato, perché depositario della linea strategica “giusta”, alla cui guida imperscrutabile i seguaci sono tenuti ad attenersi senza pericolosi deviazionismi, per il governo di masse incapaci di autogoverno e sempre a rischio di involuzioni socialdemocratiche. Dunque, il Politico come guardianaggio del popolo, nel contrasto di spinte giacobine irresponsabili a priori; mantenendo un costante sospetto nei confronti di concetti tendenti al sovversivo quali partecipazione e democrazia.

Difatti Paolo Bufalini, alto esponente piccista di quegli anni, in un’intervista radiofonica glorificava il ruolo della politica, ormai liberata dai fastidi del pubblico servizio di rappresentanza, come ineffabile funzione taumaturgica; tradotta in pura superbia nei suoi adepti. Sicché alla domanda sul pluralismo, la risposta immediata era: “pluralismo partitico, perché altrimenti non capisco di cosa si parli”. Il delirio di eccezionalità, per cui tempo fa un tardo esponente di questa (inquietante) tipologia umana – Luigi Zanda, già tesoriere dem – poteva presentare l’ennesima leggina per l’aumento delle indennità parlamentari come “costo della democrazia”; seguito a ruota dal politico di lungo corso Piero Fassino, pronto a ribadire che i previlegi materiali della sua categoria sono dovuti alla natura superiore della missione svolta.

Difatti il comunista uomo d’ordine Napolitano si è sempre ispirato all’immortale logica del “sopire e troncare”, che lo ha messo in rotta di collisione inevitabile con la diversità (giudicata moralismo destabilizzante) di Enrico Berlinguer e il radicalismo promotore della stagione dei diritti civili (giudicati disordine) legato al nome di Marco Pannella. Al tempo stesso l’apertura di credito alle politiche imbonitorie del pifferaio magico Silvio Berlusconi. E con siffatto promotore di una presunta “rivoluzione liberale”, all’insegna del monopolio televisivo e dell’impunità, i Miglioristi milanesi, che nella geografia comunista si richiamavano a Napolitano, iniziarono tranquillamente a fare affari; dimostrandosi più craxiani di Craxi. Valga la mediazione, remunerata con cospicue inserzioni pubblicitarie sugli organi di stampa della corrente, che acquisì a Fininvest l’esclusiva della raccolta pubblicitaria nelle tv dell’allora Unione Sovietica.

Ma la vera natura di questo comunista apostata si espresse al meglio all’avvento della Seconda Repubblica, improntata al cinismo e all’opportunismo berlusconiano. Nel momento in cui ascese al Quirinale, confermandosi immediatamente il presidente dei tipi alla Paita; il custode di un ordine che mette la democrazia sotto tutela (o sequestro), secondo gli immortali brocardi da regime del “quieta non movere” e del “non disturbare il manovratore”. Culminati nella banalizzazione di un ipotetico uomo della provvidenza alla guida del governo, che doveva risolvere i problemi a colpi di carisma e che poi si materializzò in un fantasmatico Mario Monti. Poi clonato dal suo successore Mattarella nell’altrettanto illusorio Mario Draghi. In entrambi i casi sostenuti dal “tutti dentro” come sincope della democrazia competitiva: l’unità nazionale” attraverso larghe intese consociative, anticamera dello stallo ascritto. Supremo contributo del fu Giorgio Napolitano alla consacrazione di quella politica come professione che, a differenza di quanto predicava Max Weber, ha perso per strada il “beruf”; un minimo di vocazione.

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