Tre rapporti sessuali a pagamento – “mia figlia era nel lettino e la porta era chiusa” – per racimolare dei soldi per poter regalare un giro in limousine al suo compagno – “pensavo di sposarmi” – e di inviare foto della piccola ma non per soldi. Durante il processo per la morte di stenti di Diana, 18 mesi, la madre Alessia Pifferi, imputata per l’infanticidio della figlia, ha parlato anche a lungo del rapporto che aveva con il suo ex compagno, Mario D’Ambrosio. La donna ha passato i giorni precedenti alla morte del bimba, il 22 luglio 2022, con lui. Una relazione, quella col compagno residente in provincia di Bergamo, piuttosto complessa. Ma che così importante che anche davanti al giudice per le indagini preliminari aveva confessato che le importava “avere un futuro con il suo compagno”.

La versione dell’imputata – L’uomo, secondo il racconto di Pifferi, rifiutava innanzitutto la figlia perché non era sua, e ogni volta che dormiva a casa loro la faceva stare in un’altra stanza oltre a “trattare male” la donna. Ma in questo caso, l’avvocato difensore ci ha tenuto a precisare che “bisogna capire cosa vuol dire per lei essere trattata male” ha detto a Fanpage.it. D’Ambrosio, interrogato durante le indagini, ha negato di aver saputo che la piccola fosse sola e ha dichiarato che la donna gli aveva riferito che era con i parenti. La Pifferi ha sostenuto che nei giorni in cui Diana era sola nel suo lettino con un biberon avrebbe detto più volte all’uomo di voler “tornare dalla bambina” ma di aver paura della “reazione” del compagno: “Lui diceva che non era il mio tassista”. Un rapporto era fatto di alti e bassi e proprio questi avrebbero condotto la donna, secondo la difesa, in un “periodo di fatica e vuoto” che ha “rafforzato la sua instabilità, non consentendole di avere comportamenti adeguati”.

“Il latte, l’acqua e il teuccio” – Ho lasciato Diana sola pochissime volte, non ricordo quante e non è mai successo niente” ha detto l’imputata rispondendo alle domande. “Le lasciavo due biberon di latte, due bottigliette d’acqua, del teuccio”, bottiglie aperte da lei, e sebbene “ero preoccupata di lasciarla sola” l’amore per il compagno avrebbe vinto su quello per la piccola. Il 14 luglio, intorno alle 19, la lascia per andare dall’allora fidanzato, a cui dice che la piccola è al mare con la sorella, ma il giorno dopo non torna a casa e non lo farà fino al 20 luglio, sebbene lunedì 18 è a Milano per impegni di lavoro di lui. “Il giorno dopo non sapevo come tornare a Milano perché i soldi erano quelli che erano (in aula ammette già di avere i contanti spesi il 20 luglio per tornare in via Carlo Parea, ndr), l’intenzione era di rientrare l’indomani infatti ho lasciato la finestra aperta della camera. Se avessi chiesto a lui di accompagnarmi mi avrebbe risposto che non ero il mio ncc (autista, ndr)”. Poi confessa che quel lunedì 18 “ho pensato a mia figlia, ma avevo paura di lui, di farlo arrabbiare” dopo un litigio in strada per un banale caffé.

“Volevo tornare da mia figlia, volevo chiederlo di portarmi a casa ma ero spaventata dalle sue reazioni” e quando il 20 luglio da sola varca l’uscio della porta per Diana è troppo tardi. Era morta di stenti con accanto quel biberon che la madre, pronta a riallacciare i rapporti con la famiglia, le aveva preparato. “Ero molto legata a Diana, era una bambina che piangeva pochissimo, non mi staccavo mai da lei” tentando quasi di far ricadere sul compagno la colpa di aver abbandonata la piccola di 18 mesi. “A mia figlia non ho dato gocce di nessun genere” spiega infine nel lungo interrogatorio in aula. Vicino alla culla dove è stata trovata la piccola era stata trovata una boccetta dell’ansiolitico ‘En’ (l’autopsia ha escluso il consumo), confezione che sarebbe stata portata da un uomo con cui l’imputata aveva una relazione perché “diceva che le gocce gli serviva a dormire”.

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