Una riscoperta della figura di padre Pino Puglisi, a trent’anni dalla sua uccisione, attraverso le vite dei ragazzi strappati alla mafia e le loro storie esemplari. C’è questo in Un prete contro la mafia – Storia di Pino Puglisi, dei suoi ragazzi e di Brancaccio, il libro edito da DeAgostini e scritto dal giornalista Danilo Procaccianti, inviato di Report. Un testo che ripercorre la storia del sacerdote antimafia e dei suoi giovani nel quartiere di Brancaccio a Palermo, ostaggio dei fratelli Graviano. Pubblichiamo, di seguito, l’introduzione del libro.

***

La domenica, di solito, mi svegliavo con l’odore del sugo che preparava mamma. Prima arrivava quel profumino e poi la sua voce squillante che ogni mattina chiamava al telefono nonne, zie, cugini e tutti i parenti fino alla settima generazione. Quella domenica no. Quella domenica mi svegliai sentendo le lacrime di mamma. Il sugo non era ancora sul fuoco, era troppo presto. La voce all’altro
capo del telefono, invece, era quella di papà. Mamma lo ascoltava e piangeva.

«Cosa è successo?» chiesi con gli occhi ancora stropicciati dal sonno.

«Niente, torna a dormire» provò a minimizzare mia madre.

Come ogni domenica mattina papà si era svegliato prestissimo ed era andato nella nostra casa di campagna poco fuori Piazza Armerina, la cittadina dell’entroterra siciliano dove sono nato e cresciuto.

Papà andava lì a rilassarsi dopo una settimana di lavoro in Comune, dove all’epoca era responsabile dell’acquedotto. Aveva il suo orto che curava con amore, i suoi fiori e soprattutto più di centocinquanta alberi di ulivo che erano come figli per lui e che ogni anno producevano decine di litri d’olio per la nostra famiglia ma anche per amici e parenti.

Di tornare a dormire non avevo la minima intenzione così mi vestii di corsa, salutai mamma e scesi in garage a prendere il mio scooter. In pochi minuti ero davanti al cancello della nostra casa di campagna e lo spettacolo che mi trovai di fronte era da far tremare le gambe.

Tutti i nostri alberi d’ulivo erano stati tagliati, in una sola notte erano state sradicate tutte quelle piante, non ne era rimasta integra nemmeno una. Sembrava fosse passato uno tsunami. Non riuscivo a crederci, chi aveva potuto fare una cosa simile? Perché? Perché prendersela con quegli alberi?

La rabbia mi saliva in corpo e la prima cosa che pensai fu: «Sono dei vigliacchi, tagliare gli alberi è come prendersela con dei bambini che non possono difendersi, come colpire chi non può chiedere aiuto, chi non può urlare la propria sofferenza».

Mi avvicinai a mio padre che aveva una faccia pallidissima. «Hai visto cosa hanno fatto?» mi disse. «Ci vorranno anni prima che ricrescano».

Ero affranto, ma ancora non avevo visto la cosa che avrebbe segnato la mia vita, l’immagine che per anni non si è cancellata dalla mia mente. Papà mi portò vicino al cancello d’ingresso e mi indicò il terreno. Proprio sotto il muretto dell’entrata c’era una grande croce di legno. Gli autori della mattanza degli ulivi non si erano accontentati di tagliare a uno a uno gli alberi con una motosega ma avevano lasciato quella croce come a dire: «Oggi è toccato agli ulivi, domani potrebbe succedere a qualcuno di voi».

Un vero e proprio avvertimento, una minaccia che avrebbe segnato il mio passaggio da ragazzino spensierato a uomo adulto costretto a fare i conti con un fenomeno di cui fino ad allora avevo sentito parlare in tv o letto sui giornali: la mentalità mafiosa.

Perché vi racconto questo episodio? E cosa c’entra con la vita di don Pino Puglisi? Probabilmente, mentre svolgeva il suo lavoro, mio padre aveva detto un “no” a qualcuno che non l’aveva accettato. Gli autori di quel gesto infame non sono mai stati identificati, non abbiamo mai saputo se fossero mafiosi in senso stretto. Non è importante. Quello che ho capito quel giorno è che la mafia non è solo l’organizzazione criminale che spara e terrorizza, la mafia è una mentalità, è un modo di vivere e di stare al mondo. La mafia è vicino a noi, la mafia siamo noi quando pensiamo che un diritto debba passare come favore, la mafia siamo noi quando vediamo gesti di prepotenza e ci voltiamo dall’altra parte, la mafia siamo noi quando accettiamo una società basata sul disprezzo delle regole.

Avevo sedici anni quel giorno, era marzo del 1993, l’anno prima a maggio c’era stata la strage di Capaci in cui era morto il giudice Falcone, sua moglie e la sua scorta; a luglio invece c’era stata la strage di via D’Amelio in cui avevano perso la vita il giudice Borsellino, le donne e gli uomini della sua scorta.

Giovanni Falcone diceva: «Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia. Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale».

Quelle stragi un merito lo avevano avuto, avevano dato una scossa al torpore misto a indifferenza che regnava in Sicilia da tanti, troppi anni. I siciliani cominciarono a capire che la mafia era come una cappa sulle nostre teste. D’altronde Paolo Borsellino per anni aveva ripetuto: «La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».

Qualche mese dopo l’episodio dei nostri ulivi, a settembre del 1993 un prete veniva ucciso a Palermo con un colpo di pistola: don Pino Puglisi era il primo parroco morto per mano della criminalità organizzata. Conoscere la sua storia vi farà capire come le belle parole possano diventare fatti. Don Pino non era un eroe e soprattutto non era un eroe antimafia. Lui rifiutava questa etichetta. Era semplicemente un prete che predicando il Vangelo trovava naturale allontanare i bambini del suo quartiere, Brancaccio, dall’abbraccio mortale con la mentalità mafiosa.

I fratelli Graviano, boss mafiosi appartenenti al vertice di Cosa Nostra, abitavano in quel quartiere, ma per don Pino erano solo uno dei tanti problemi da combattere. Loro erano solo la faccia di un sistema opprimente. In quel quartiere mancavano le scuole, gli spazi per i bambini e mancavano perfino le fogne. I responsabili di quel degrado non erano solo i mafiosi in senso stretto. Erano responsabili anche le istituzioni assenti, lo Stato che si girava dall’altra parte.

Sembrerà quasi banale o perfino tragicomico ma la prima battaglia di don Pino contro la mentalità mafiosa fu proprio quella per le fogne. Negli abitanti di Brancaccio si era fatta strada l’idea che per avere le fogne bisognava ingraziarsi il politico di turno, pregare il mafiosetto locale o corrompere un funzionario comunale. Don Pino diede loro la forza di ribellarsi, gli fece capire che esisteva un’alternativa. Promosse raccolte di firme e manifestazioni sotto al Comune. Vinse quella battaglia e quando i cittadini di Brancaccio capirono che le fogne erano un loro diritto, capirono anche che i loro figli non erano condannati alla miseria, all’ignoranza e alla “mafiosità”.

Quando seppi della sua morte, non conoscevo la storia di don Pino, d’altronde non era un personaggio da copertina, ma ricordo che quell’anno mi colpirono molto le parole del vescovo della mia città, monsignor Vincenzo Cirrincione, amico di vecchia data di don Puglisi. «Negli anni Settanta alcuni vescovi affermavano che nella loro diocesi non c’era la mafia, che si trattava di un fenomeno di alcune parti della Sicilia» disse. «Invece ci si è accorti dopo qualche anno che anche in quelle terre era presente e anzi, proprio in quelle diocesi aveva i centri organizzativi».

Monsignor Cirrincione sottolineava anche un secondo aspetto: «Non si sono considerati nel pieno della loro valenza negativa il favoritismo, la raccomandazione, il clientelismo, gli appalti. Non abbiamo capito che così si favoriva la mafia. Queste sono colpe nostre».

Ecco, in quel momento io mi concentrai sulle nostre colpe e probabilmente fu quella la molla che poi mi portò a fare il giornalista, a raccontare questi fenomeni, a cercare la verità, anche la più scomoda. Spero che questo libro possa essere un piccolo granello che smuova le vostre coscienze e vi aiuti a non girarvi dall’altra parte nel momento in cui vedrete anche la più piccola delle ingiustizie. Siate dei meravigliosi rompiscatole così come lo è stato don Pino.

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