Oltre novemila morti per l’Onu, più di 10mila secondo altre fonti giornalistiche. Le cifre ufficiali non sono disponibili, ma è questa la stima che viene fatta per il numero di vittime tra la popolazione ucraina dall’inizio dell’invasione russa. Ha senso, però, paragonare le perdite tra i civili registrate in questa guerra con quelle di altri conflitti? Per Antonio Li Gobbi, ex generale già direttore delle operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della Nato, no: non c’è alcuna ragione logica per stabilire paragoni, sia dal punto di vista militare che culturale.

“Ci sono anche dati che danno informazioni superiori a quelle dell’Onu – spiega Li Gobbi al Fatto.it -. Nella prima metà di agosto su alcune testate si parlava di 10.750 morti tra i civili ucraini (Atlante Guerre scriveva il 4 agosto di 10.749 vittime, ndr) di cui 499 bambini. Si tratta di cifre che non corrispondono comunque al dato reale, perché è chiaro che queste informazioni vengano manipolate dalle parti coinvolte per motivi propagandistici. Poi non tengono conto, ad esempio, delle persone che restano ferite e poi perdono la vita a seguito degli attacchi, o di altre che vengono ricoverate in ospedale senza energia elettrica. E questi sono solo un paio di esempi su come i numeri non possano essere fedeli alla realtà.

In sostanza si tratta di informazioni indicative e non definitive.
I numeri possono essere indicativi per tentare di capire l’impatto che hanno sulla percezione della popolazione e il sostegno che i cittadini forniscono o meno a una certa linea politica. Sulle vittime tra i civili il controllo da parte degli organi di stampa può essere più facile, in particolare sul territorio ucraino, e quindi il margine di errore è più ridotto perché può esserci un effettivo riscontro sul territorio. Cosa che invece non è possibile sui militari al fronte. Ma dal punto di vista strettamente politico la vittima civile ha una “valenza” molto superiore rispetto a quella della vittima militare.

In che senso?
Le vittime civili comprendono le categorie più indifese, quelle che nell’immaginario collettivo colpiscono di più. Parliamo di bambini, anziani, donne. In Ucraina gli uomini in età utile sono al fronte, morti, o hanno lasciato il Paese, dunque le vittime rientrano in quelle “categorie” che dal nostro punto di vista culturale riteniamo più vulnerabili e pertanto tali da dover essere risparmiate.

Qual è l’impatto psicologico sulla popolazione del numero di vittime tra i civili?
Difficile misurare le conseguenze sulla volontà di resistere del popolo ucraino. Gli effetti possono essere due, opposti tra di loro: demoralizzante, o di aumento del sentimento anti-russo. Bisognerebbe essere sul posto e conoscere meglio la psicologia del popolo ucraino, il suo modo di sentire, e chi è là può dirlo molto meglio di noi che siamo qui. Cerchiamo di vederlo in prospettiva storica: se consideriamo il caso italiano nella Seconda Guerra mondiale, vediamo che il regime è imploso il 25 luglio, a poca distanza dall’inizio dei bombardamenti su Roma. In particolare le bombe degli alleati su San Lorenzo hanno avuto un effetto dirompente, con gli stessi gerarchi fascisti che hanno abbandonato Mussolini. Se ora il popolo ucraino possa o meno avere la stessa reazione è difficile dirlo.

Premesso che i morti in un conflitto siano sempre e comunque troppi, vorremmo capire come valutare il numero di vittime civili che finora hanno perso la vita in 19 mesi di guerra.
Il discorso è complesso e soprattutto difficile, perché noi europei – noi occidentali – non disponiamo di records attendibili. I bombardamenti sulle città li abbiamo subiti durante la Seconda guerra mondiale: Londra, l’Italia nella parte occupata dalla Repubblica sociale, in Germania. Sono avvenuti in periodi brevi e con importanti numeri di vittime, ma nel contesto di una guerra totale. I morti sono sempre e comunque troppi, ma quello che sta accadendo in Ucraina andrebbe paragonato a una situazione europea.

Quindi non ha senso il confronto con le vittime di altre guerre?
Secondo me no. Non ha senso ad esempio confrontarli col numero di civili morti dal 2011 in Siria. Lì sono stati e sono tantissimi, ma le ragioni sono legate a una situazione storica e culturale completamente diversa. Il padre di Assad nel 1982, con la rivolta dei Fratelli Musulmani, ha fatto bombardare la città di Ḥamā provocando decine di migliaia di vittime. In Europa non abbiamo avuto nulla di simile.

Cos’è che determina valutazioni così diverse?
I contesti culturali sono diversi, il livello di violenza è diverso. Nel conflitto ceceno, ad esempio, si è sviluppato un livello di violenza molto superiore, così come in Afghanistan. Qui invece siamo in un paese europeo dove la percezione culturale del valore della vita da parte della popolazione è completamente differente. E in una concezione europea e cristiana si tende a dare una rilevanza che altre culture considerano meno.

In ogni caso, la questione delle vittime civili è qualcosa che da 19 mesi affligge la popolazione ucraina.
Sì. E affligge anche la componente ucraina russofila, perché i bombardamenti da parte ucraina ci sono stati anche su Donetsk e Lugansk. Quello a cui stiamo assistendo ultimamente è la capacità ucraina di portare l’offesa aerea all’interno del territorio russo. Ovviamente si tratta di attacchi limitati, condotti con droni, con carica esplosiva ridotta. Pensiamo all’attacco sul Cremlino, a quelli che normalmente avvengono contro basi militari. Questo, dal punto di vista piscologico, può dare l’impressione anche a una parte della popolazione russa – ovviamente non a chi abita nell’estremo Est o in Siberia – di essere potenziale oggetto di futuri attacchi. Il fine dei bombardamenti russi su obiettivi civili non era di distruggere le infrastrutture ucraine, ma di piegare la volontà di resistenza della popolazione. Poi bisogna vedere se hanno ottenuto il risultato o, al contrario, rinvigorito lo spirito di resistenza.

Abbiamo indizi in uno o nell’altro senso?
Essendo paesi in guerra sia Ucraina che Russia, e avendo limitato molto entrambi e prevedibilmente la libertà di informazione, è difficile avere una percezione del sentimento popolare e bisogna vedere quanto la popolazione si senta libera di esprimere il proprio parere. Personalmente, negli anni ’80 ero stato due anni in Siria per l’Onu e notavo che i locali avevano paura di confidarsi con me, occidentale a servizio delle Nazioni Unite: io me ne sarei andato, loro sarebbero rimasti, anche a pagare le conseguenze di quello che avrebbero potuto dirmi.

Questo dipende anche dal tipo di guerra che viene condotta in Ucraina?
Sì. In una guerra civile motivata da motivi politici e da una conflittualità interetnica vediamo – come nei Balcani negli anni ’90 – livelli di violenza che per noi erano inconcepibili. Qui però non si tratta di una guerra civile o di un conflitto dove c’è il musulmano contro il cristiano o contro l’indu. Si tratta di una guerra combattuta in modo più o meno classico, al fronte, e dove ci sono bombardamenti fatti nelle retrovie. Non c’è una guerra diffusa, non si combatte dappertutto, si combatte su una linea di fronte, ci sono eserciti che si confrontano e le vittime sono nelle retrovie. Direi che una situazione di questo topo l’abbiamo vista nella Seconda guerra mondiale, mentre i conflitti a cui abbiamo assistito dopo sono di guerriglia e di conflittualità diffusa tra la popolazione. Ora invece si tratta di eserciti regolari che si fronteggiano e dunque ci si aspetterebbe anche il totale rispetto del diritto internazionale. E questo non c’è.

Perché non vengono bombardate le città?
Le città vengono bombardate dai russi essenzialmente per due diverse motivazioni: o per colpire specifiche infrastrutture di rilevanza bellica (nodi e stazioni ferroviarie, depositi di armamenti, fabbriche) o per minare la volontà di resistenza e il supporto al governo da parte della popolazione civile. Da notare comunque che la Russia – nonostante le dichiarazioni un po’ “guascone” del vice presidente Medvedev, che recita una parte – finora si è ben guardata dal fare uso di tutto il potere aereo e di fuoco che avrebbe in teoria a disposizione: c’è una certa attenzione a non superare livelli che possano portare ad una spiralizzazione e ad un allargamento del conflitto, cosa che Mosca non potrebbe permettersi e che Pechino non desidera.

Sta dicendo che è la via per non arrivare al conflitto nucleare?
Non penso che ci sia un reale rischio di ricorso all’arma nucleare, a meno che la leadership russa si trovi a dover lottare per la propria sopravvivenza. Se Hitler nel bunker e l’avesse avuta, probabilmente l’avrebbe usata. Sta anche all’Occidente usare una certa accortezza in questo campo. Detto questo, nel caso della Russia c’è l’esigenza di evitare un’eccessiva escalation del livello di violenza. Non c’è interesse né da parte di Mosca – e neanche di Pechino – che si elevi troppo il livello di tensione, perché il conflitto potrebbe ampliarsi anche alla Nato o ad alcuni suoi Paesi. In caso di ulteriore spiralizzazione del conflitto, alcuni paesi dell’Est Europa potrebbero spingere per un intervento Nato o essere comunque tentati di intervenire anche al di fuori dell’Alleanza. Non possiamo trascurare che, più che comprensibilmente considerando la storia del secolo scorso, c’è un potente sentimento antirusso tra paesi Baltici e Polonia. Ero stato in Ucraina nel 2001 e una cosa che mi ha stupito, e molto, sono stati i suoi vertici militari, che fino a poco prima erano alti ufficiali nell’esercito russo. In loro c’era un forte sentimento antirusso: si sentivano da sempre trattati come cittadini di serie B. Portavano ad esempio il caso dell’Afghanistan (1979-1989), dove Mosca cercava di risparmiare le unità russe, a scapito di ucraini e bielorussi che venivano mandati allo sbaraglio.

In sostanza possiamo dire che questa è una guerra combattuta tra gli eserciti e non sui civili.
Sì. Gli attacchi sui civili condotti soprattutto dai russi sono bombardamenti su obiettivi considerati importanti per l’organizzazione militare, snodi ferroviari, vie di comunicazione e che possono avere anche delle vittime civili come – utilizzando un termine davvero orribile, purtroppo – “danno collaterale”. O sulle città per piegare la resistenza.

Facciamo invece un passaggio sui militari morti in un anno e mezzo di guerra.
Questo per l’esercito ucraino è un grande fattore di vulnerabilità. Per quanto le loro perdite siano inferiori a quelle russe in termini assoluti, pesano molto di più perché, prendendo per buoni i dati forniti recentemente dal New York Times, 70mila morti e 120mila feriti a fronte di 120mila morti russi e tra i 170 e 190mila feriti sempre russi (quindi in media 300mila), i 190mila ucraini rappresentano in termini relativi una perdita molto più pesante. E’ naturale che un esercito in attacco abbia un livello di perdite superiore a chi si difende, ma se lo confrontiamo sia con la popolazione sia con il volume delle forze armate prima della guerra i numeri hanno un valore totalmente diverso: guardando ai feriti e morti ucraini sul totale della popolazione (37 milioni e mezzo prima della guerra nelle aree controllate da Kiev, ovvero senza Crimea e autoproclamate repubbliche filo russe), significa che un maschio ogni 200 è un soldato che è stato ucciso in combattimento o ferito. Le forze armate ucraine hanno perso l’equivalente di quello che era il loro intero organico prima della guerra (contavano quasi 200mila soldati). Se guardiamo invece alla Russia, che ha una popolazione di 143 milioni di persone a cui dobbiamo aggiungere 4 milioni e mezzo di ucraini che vivevano già nel 2022 in zone sotto il controllo russo, i 300mila tra morti e feriti rappresenterebbero solo un uomo ogni 500. Si tratta di cifre che dal punto di vista strettamente militare contano molto meno. E poi dovremmo considerare che anche i “caduti” da parte russa contano psicologicamente molto meno di quelli da parte ucraina.

Perché?
I russi hanno usato molte milizie come i ceceni, i mercenari della Wagner (l’effetto psicologico di una sulla popolazione russa conta psicologicamente molto meno) e i carcerati e e hanno reclutato interi reparti nelle remote zone asiatiche dell’est del paese. L’impatto psicologico di queste vittime sulla popolazione e sulle elites moscovite è molto più contenuto. Le forze armate russe a inizio guerra avevano 800mila soldati effettivi e 250mila riserve, che poi sono state integrate. Una perdita di 300mila uomini non ha l’effetto dirompente che ha avuto una cifra minore sull’Ucraina. E questo adesso conta molto, anche considerando l’offensiva in corso e la possibilità per l’Ucraina di continuare a sostenere ulteriormente questa azione – iniziata ormai tre mesi fa – con l’esigenza che si ha in attacco, molto più che in difesa, di continuo avvicendamento dei reparti e di ripianamento delle loro perdite sia umane che in armi ed equipaggiamenti.

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