Oggi inizia ufficialmente l’anno scolastico. Per i ragazzi c’è ancora qualche giorno di vacanza ma maestri e professori torneranno a incontrarsi oggi. Sono più di quindici anni che faccio questo mestiere e non ho mai sentito un collega dire: “Che bello rivedersi. Ho voglia di tornare a scuola”. In queste ore girano vignette di ogni tipo sulle chat dei docenti. Una per tutte: una maestra stesa a terra con un peso con la scritta “Anno scolastico 2023-2024” che gli sta per precipitare addosso e lo slogan “Sta per iniziare e voi siete pronti?”.

La verità è che nessuno vuole bene alla Scuola. E’ oggi considerata non come una comunità, non come un mestiere che ti dona l’opportunità di crescere insieme a dei bambini e a dei ragazzi; non un luogo dove ridere, dove gioire, dove sognare, dove immaginare. Tutt’altro. Oggi nella maggior parte del Regno d’Italia si svolgerà il “rito” funebre del collegio docenti: nella maggior parte dei casi il preside parlerà da solo, farà una sorta di “omelia”, stilerà la lista dei problemi (“Mancano i docenti di sostegno”; “Non abbiamo i bidelli lì”; “Non abbiamo gli spazi là”); magari ricorderà che lo sciopero è meglio non farlo cercando di intimidire il gregge. Nulla di più.

Sfido chi in un collegio docenti inizierà leggendo un pezzo di “Lettera a una professoressa” visto che siamo nel centenario milaniano. Nessuno, visto che nel prossimo anno scolastico ci saranno due centenari della nascita, quello del maestro Alberto Manzi e di Danilo Dolci, se li ricorderà. Quella non è scuola o perlomeno è l’ “industria dell’obbligo” come cantava Enzo Maolucci nel 1976.

Di fronte a questo scenario ci dovrebbe essere chi si ribella. Chi agitando un libro del priore di Barbiana o di Mario Lodi o di Maria Montessori provi a chiedere di mettere fine alla burocrazia; che non si facciamo più corsi di formazione sulla sicurezza fasulli; che vi sia l’abolizione del voto; che si possa davvero decidere insieme come condurre una scuola coinvolgendo anche i genitori (oggi i collegi docenti sono solo nelle mani dei presidi e i consigli d’istituto sono una farsa). Sogno e continuo a sognare una scuola (e provo a farla) dove nessuno entri in aula dicendo “Apriamo il quaderno” ma “Che è successo oggi nel mondo?”. Desidero una scuola dove gli insegnanti siano i primi ad ammettere i loro limiti e pregi (“Io so insegnare matematica perché la amo, mi appassiona”, non è il mio caso personale; “Io vorrei insegnare arte perché visito gallerie ogni weekend”).

Lavoro per una scuola dove – non come nello Stato – se il dirigente ti “fotte” tu provi a “fottere” lui, ma dove vi sia un confronto leale. Sogno una scuola dove le aule siano aperte, dove nei corridoi vi siano musica in filodiffusione e piante ad accogliere i bambini e volti sorridenti, non certo già stanchi il primo giorno per quel masso che gli sta per cadere addosso. E’ solo un sogno? Forse no, ma serve che ciascun collega inizi a voler davvero bene alla scuola, perché lì crescono coloro che potranno salvare il nostro pianeta, che guideranno le nostre comunità, che educheranno i nostri figli, che realizzeranno opere d’arte e suoneranno spartiti quando, ormai vecchi, andremo ad un concerto ad ascoltare un nostro alunno.

Lì – e lo dico egoisticamente (e ironicamente) – crescono quelli che un giorno ci cureranno. Ed è meglio che crescano bene. Sapendo scrivere e leggere, certo. Sapendo fare un lavoretto e suonare il piffero, certo. Sapendo alzarsi in piedi quando entra il professore, certo; ma soprattutto amando la parola, la musica, l’arte, la storia e sapendo che tocca a ciascuno di loro far vivere la Costituzione.

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