L’Ucraina, come l’Italia, è un paese con importanti riserve di gas naturale che, complici anche le lusinghe del “metano importato a buon prezzo” da Mosca, negli anni ha finito per sfruttare poco il suo “tesoretto”. Parliamo di riserve stimate in quasi duemila miliardi di metri cubi: facendo i conti della serva, sono quaranta volte quelle del Bel Paese. Secondo la US Energy Information Administration, l’Ucraina possiede le terze riserve di gas di scisto più grandi d’Europa, dietro a Francia e Norvegia. Non a caso, poco dopo che dieci anni fa Chevron e Royal Dutch Shell si erano aggiudicate le gare per lo sfruttamento delle riserve aree del Donbass e di Leopoli, entrambe con enormi riserve di gas, l’interferenza russa per strappare l’Ucraina all’occidente si fece così asfissiante da arrivare alla rivolta dell’Euromaidan, all’occupazione della Crimea e alla guerra del Donbass. Insomma, Kiev, nei piani di Mosca, non avrebbe mai dovuto staccarsi dalla dipendenza energetica dalla Russia.

Oltre al potenziale dello shale gas, l’infrastruttura del gas ucraina comprende anche un insieme di piattaforme costruite nella zona economica dell’Ucraina del Mar Nero allo scopo di esplorare e sviluppare giacimenti di idrocarburi: parliamo di quattordici piattaforme, tra vecchie e nuove. Di queste, le piattaforme di perforazione autosollevanti “Petro Godovanets” e “Nezalezhnosti”, acquistate durante la presidenza di Viktor Yanukovich, quando il ministro dell’Energia era guidato dal vicepremier Yuriy Boyko, furono chiamate “Torri di Boyko” e passarono alla storia per un colossale scandalo. Nel 2012, la giornalista Tetyana Chornovil dimostrò un complesso sistema di corruzione e appropriazione illegale di fondi pubblici proprio per l’acquisto delle “torri” che aveva come beneficiario finale l’allora presidente filorusso Viktor Yanukovich, capace di distrarre quasi cento milioni di dollari.

All’inizio del 2014 si trovavano in corrispondenza dei campi gassiferi off-shore davanti a Odessa ed appartenevano a Chornomornaftogaz, ma in seguito furono occupate illegalmente dai russi e trasportate più vicino alla costa della Crimea, mentre l’azienda, con sede a Simferopoli, passò soto il controllo di Mosca.

Oggi, le piattaforme sequestrate dai russi si trovano in una vasta area posta a circa cento chilometri da Odessa e centocinquanta dalla Crimea: oltre che per la produzione di gas, gli occupanti le hanno utilizzate anche per impianti radar per ricognizione e monitoraggio. Su quelle “torri”, la Russia ha anche collocato piccole guarnigioni e immagazzinato armi e munizioni, collaudando uno schema poi impiegato anche per la centrale nucleare di Zaporizhzhia. Da quelle parti il 17 giugno 2022 gli ucraini colpirono il rimorchiatore russo Vasyl Behe, primo passo per la liberazione della vicina Isola dei Serpenti e dell’alleggerimento della pressione sul Mar Nero occidentale. In quel periodo Kiev colpì diverse piattaforme controllate dalla Russia: alcune infrastrutture furono avvolte dalle fiamme per settimane e la produzione di gas fu interrotta. Proprio quel successo delle forze armate ucraine mise bene in luce, anche e soprattutto per quelli che avevano considerato l’affondamento della nave ammiraglia russa nel Nero, l’incrociatore Moskva, alla stregua di un colpo di fortuna, le vulnerabilità di Mosca nel Mar Nero. Nonostante l’assenza di una flotta ucraina, Kiev da allora non ha cessato di usare il suo arsenale di missili e droni per fare pressione sulla Marina russa.

Negli ultimi giorni, con le truppe ucraine in forte pressione sul fronte meridionale, tra Kherson, Zaporizhzhia e Mariupol, la guerra tra Ucraina e Federazione Russa per le torri del gas a ovest della Crimea occupata, si è intensificata: una nave della Marina Militare ucraina ha messo in fuga un aereo da combattimento russo, che esiste e che secondo il Ministero della Difesa russa affondato una unità di una Marina militare, quella ucraina appunto, di cui Mosca nega l’esistenza. Dell’importanza dello scontro in atto ha scritto anche il Ministero della Difesa britannico, secondo il quale queste piattaforme non solo controllano preziose risorse di idrocarburi ma, come l’Isola dei Serpenti a ovest, possono anche essere utilizzate come basi di schieramento avanzato, eliporti e per ospitare sistemi missilistici a lungo raggio.

Il vantaggio cercato dall’Ucraina, nel cacciare i russi dalle “Torri di Boyko” non è solo propagandistico: prendendo il controllo di un buon numero di piattaforme, disporrebbero di basi quasi indistruttibili poste a pochi chilometri dalle coste della Crimea, occupata dai russi dal 2014, guadagnando così posizioni tatticamente favorevoli per le incursioni degli “uomini rana” del capo dell’intelligence Budanov. Gli stessi che, non disponendo ancora di avamposti, hanno assaltato e distrutto una postazione radar e per la difesa aerea spuntando dal mare e sparendovi in poche ore nei giorni scorsi. Insomma, Mosca sarebbe costretta, per coprire almeno in parte la falla tattica, a spostare truppe dal fronte alla penisola crimeana per non avere brutte sorprese.

In definitiva, le piattaforme possono diventare delle basi per mezzi aerei e navali, ma soprattutto per le incursioni, minimizzando il rischio di affondamento: ciascuna piattaforma, tecnicamente un jack-up rig – cioè una nave autosollevante ancorata al fondale con tre gambe di acciaio – pesa quasi trentamila tonnellate, cioè poco più della nave ammiraglia italiana, la portaerei leggera Cavour, la quale ovviamente galleggia e non si appoggia sul fondale. Tra l’altro, sei piattaforme su quattordici dispongono di uno spazio per l’atterraggio degli elicotteri capace di accogliere mezzi fino a 12,8 tonnellate, abbastanza per ospitare un velivolo da attacco o per la logistica a pieno carico. Inoltre, questi giganti sono costruiti per resistere ai cicloni tropicali, tempeste capaci di sviluppare una potenza pari a 200 chilotoni, dieci volte quella prodotta dalla bomba atomica scoppiata ad Hiroshima. Quel che ci vuole per non temere l’artiglieria russa.

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