La critica più penetrante al segretario del Partito democratico Elly Schlein non è venuta dai conservatori falsificazionisti ma, inaspettatamente, da una famosa attrice collocata sicuramente nel campo progressista, Sabrina Ferilli. In un’intervista ha dichiarato che, se è pur vero che la Meloni è ancorata ai valori del ventennio fascista, politicamente è molto delusa perché non vede le proposte della sinistra.

In effetti, su molti temi economici c’è una specie di vuoto pneumatico. I conservatori sanno quello che fanno, cioè poco o nulla tanto il mercato predatorio fa tutto, ma i progressisti? Quali solo le loro proposte, al di là delle solenni enunciazioni di principio?

La genuina domanda dell’attrice richiede una risposta. Proviamo a darne una partendo dal problema più acuto del momento, il rapporto tra salario e inflazione.

L’inflazione attuale ormai è un fatto ben documentato, è iniziata con l’aumento dei prezzi delle materie prime, inflazione da costi, e poi si è trasformata in inflazione da profitti perché lavoratori autonomi e imprese ne hanno approfittato per recuperare i redditi persi con il Covid. Il tutto a spese dei consumatori e dei lavoratori dipendenti, per i quali il salasso da inflazione è stato, ed è, pesantissimo. In maniera fatalistica siamo in attesa che la bolla inflazionistica si risolva da sé. Solamente alla fine del triennio contrattuale, e quasi di sicuro non completamente, i 16 milioni di lavoratori dipendenti potranno recuperare il loro potere di acquisto. Tra parentesi, se i salari non salgono, anche la domanda globale non aumenterà, creando altri problemi al sistema economico. Una abbuffata di profitti, come Keynes insegnava ai sui tempi, non è una cosa positiva per l’economia che è sostenuta dalla spesa dei consumatori, e in definitiva si ritorcerà contro le stesse imprese.

C’è modo di contrastare questo processo perverso di inflazione da profitti che erode ferocemente i salari e danneggia l’economia? Forse sì. Si potrebbe intervenire per difendere i redditi da lavoro dipendente con qualche blando automatismo, sul modello della Bce. La banca centrale europea ha il sacro dovere di difendere il potere di acquisto della moneta e quindi di contrastare l’inflazione. Piuttosto curiosamente, l’obiettivo non è un’inflazione nulla, come uno potrebbe pensare, ma quello di un tasso di inflazione al 2%. Se l’aumento dei prezzi sale oltre questa soglia la banca interviene. Qualcosa di simile si potrebbe proporre riguardo all’incremento dei salari. Nel caso in cui l’inflazione aumentasse due volte rispetto al valore obiettivo della Bce, e quindi al 4%, valore mai registrato in 20 anni prima della guerra attuale, i salari dovrebbero aumentare l’anno seguente automaticamente del 50%, recuperando con un anno di ritardo la metà del potere di acquisto perduto. Poi alla scadenza triennale si aprirebbero le naturali trattative contrattuali.

Questo incremento automatico, ma modesto, avrebbe due effetti. Il primo, naturale, è quello di allentare le pressioni sul rinnovo contrattuale futuro, perché molto è già stato dato. Il secondo è quello di portare gli imprenditori ad una certa disciplina. Una volta si diceva, erroneamente, che il salario era una variabile indipendente, ora pare che siano i profitti una variabile completamente staccata dalla realtà economica, un errore egualmente grave.

Questa mini scala mobile, che potrebbe scattare però solo a certe condizioni piuttosto eccezionali, immagino sarebbe subito considerata un’idea, nel migliore dei casi, sbagliata o addirittura strampalata dalla scuola economica ortodossa. Qualcuno subito chiamerebbe in causa come controesempio l’inflazione degli anni Settanta e così via. Ma a questi passatisti potremmo dire che nel frattempo il mondo è cambiato, e più che le vecchie teorie bisogna guardare alla realtà del capitalismo odierno. A questo proposito una lezione molto importante ci viene dagli Usa, dove c’è stato un notevole dibattito su come frenare l’inflazione dal momento che prezzi e salari si muovono liberamente di mese in mese.

Qualche economista molto autorevole ha sostenuto che fosse necessaria una recessione molto forte, seguendo passivamente i vecchi schemi ormai obsoleti. Idea del tutto smentita dalla realtà. A maggio 2020 l’inflazione era del 3,8% e i salari crescevano del 2,5%. Nel luglio 2022 i prezzi toccavano la punta massima dell’8,6%, mentre i salari crescevano del 6,7%. A luglio 2023 l’inflazione è stata appena il 3% e la bolla inflazionista si è risolta senza penalizzare troppo i salari. Grosso modo i lavoratori Usa degli ultimi due anni hanno perso il 2% del loro potere di acquisto e non il triplo o il quadruplo come in Italia. Non sono i salari che hanno spinto l’inflazione, casomai il contrario. Nel frattempo la crescita economica americana è stata ancora da record.

Il fronte progressista deve rispondere ai suoi elettori, come Sabrina Ferilli, e possibilmente riguadagnarli. Rimanere nella confort zone di nobili valori non basta. È necessario anche sporcarsi le mani arrivando a proposte concrete. La questione del salario e del reddito dei lavoratori dipendenti per i progressisti è troppo importante per essere limitata alla battaglia, peraltro tardiva per il Partito Democratico, sul salario minimo. Battaglia nobile, ma di retroguardia. Se i progressisti non difendono con proposte coraggiose e non convenzionali tutti i lavoratori a reddito fisso, chi lo farà? I conservatori vogliono che sia lo stato ad aumentare i salari riducendo i contributi previdenziali. Una strada economicamente demenziale che porta alla riduzione dello stato sociale che la sinistra non può seguire.

Quando la Bce di Draghi ruppe gli indugi e inondò il mercato con una enorme liquidità infrangendo i suoi venerati principi, tutti furono d’accordo perché si salvavano le banche, prima che l’economia. Ora occorre essere egualmente non convenzionali in tempi di inflazione bellica e proporre misure che aiutino in maniera ragionevole i lavoratori e disciplinino il mondo delle imprese. Oltre al salario minimo, occorre fare delle proposte concrete per un salario giusto, cioè aggiustato per l’inflazione. Su questo, come su altri temi, i progressisti devono battere un colpo, se vogliono tornare in sella.

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