Tra incertezze interne, sfide esterne, e misteriosi imprevisti, la Cina continua a tessere la sua tela geopolitica nel cosiddetto Sud globale. L’area del mondo balzata al centro dell’agenda cinese dalla fine del Covid. Dopo l’Asia centrale e il Medio Oriente, questa settimana Xi Jinping è volato in Sudafrica per partecipare al vertice dei Brics. Non solo è appena la seconda volta dall’inizio dell’anno che il presidente cinese – accolto in Russia a marzo – si è recato all’estero. Per Xi è anche la prima vera apparizione pubblica dopo il ritiro estivo a Beidaihe, la nota meta vacanziera dove quest’anno i leader cinesi hanno avuto molto poco tempo da dedicare al relax tra alluvioni record e rallentamento dell’economia.

Basterebbe quindi il contesto generale per intuire l’importanza attribuita da Pechino alla missione africana, la prima del capo di Stato cinese in cinque anni. Da una parte viene riaffermata la centralità (economica e geopolitica) del Sudafrica, il paese da cui si dirama l’export dell’Africa Sub-sahariana, con cui Pechino e Mosca hanno realizzato a febbraio esercitazioni navali, e dove Xi ha effettuato più visite in assoluto: ben quattro dall’assunzione della presidenza nel 2013. Una in meno della Russia, la meta estera più frequentata dal presidente cinese. Dall’altra trova conferma l’impegno di Pechino a sfidare l’Occidente attraverso la creazione di nuove piattaforme multilaterali con il Sud globale.

Le intese al vertice Brics – A pochi giorni dallo storico vertice di Camp David – che ha suggellato l’alleanza militare ed economica tra Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud – i Brics hanno dimostrato – nonostante le note divergenze interne – di avere una visione sufficientemente coesa da perseguire alcuni traguardi comuni: in barba alle previsioni più pessimistiche è stato raggiunta un’intesa unanime sull’ampliamento della membership e l’utilizzo più massiccio delle rispettive valute locali. Non per perseguire una “de-dollarizzazione” – ha chiarito il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa smentendo quanto dichiarato in video da Vladimir Putin. Bensì con l’obiettivo di “facilitare gli scambi commerciali tra i paesi membri. Per Pechino, vuol dire poter contare su un’organizzazione sempre più sostanziosa (già pari a oltre un quarto del Pil mondiale) con cui sponsorizzare una propria visione degli equilibri internazionali e promuovere all’estero lo yuan, che dallo scorso febbraio ha superato il biglietto verde diventando la moneta straniera più utilizzata in Russia.

La strategia del consenso Xi lo ha detto esplicitamente: “La situazione geopolitica è cupa”. Per questo la “famiglia Brics” dovrebbe “unire le nostre forze, unire la nostra saggezza per rendere la governance globale più giusta ed equa”. Proprio in quest’ottica il leader di Pechino ha anche promesso che “la Cina continuerà a lavorare per favorire l’adesione dell’Unione africana al G20” auspicando “un ruolo maggiore” del continente “negli affari internazionali e regionali”. Per giustizia ed equità, certo. Ma anche per ottenere sempre più consensi ai tavoli globali, dove – secondo l’autorevole istituto AidData – gli aiuti economici di Pechino stanno spingendo i paesi beneficiari ad abbracciare con maggiore entusiasmo le varie iniziative cinesi.

Citando la Global Civilization Initiative (GCI) e la Global Security Initiative (GSI), a Johannesburg Xi ha parlato di “scambio di civiltà” e “apprendimento reciproco”, nonché della necessità di aderire a “un nuovo concetto di sicurezza che sia comune, globale, cooperativo e sostenibile”. Dall’inizio della guerra in Ucraina, la Cina ha dimostrato di saper sfruttare la distrazione di Mosca per accelerare la propria penetrazione in Asia centrale. Qualcosa di simile potrebbe avvenire in Africa, o forse sta già avvenendo come suggerisce il rapido aumento delle sinergie militari con le capitali del continente. Un terreno, quello della difesa, fino a poco tempo fa di pertinenza russa. D’altronde, i limiti di Mosca nel continente sono affiorati a luglio, quando al vertice africano indetto da Putin hanno partecipato appena 17 paesi sugli oltre 50 invitati.

La sfida agli Usa e l’impatto sull’Africa – Ma è soprattutto contro gli Stati Uniti che sono diretti gli strali cinesi. “Ciò di cui il mondo ha bisogno oggi è la pace, non il conflitto; ciò che il mondo vuole è il coordinamento, non lo scontro”, ha sentenziato Xi richiamando i principi della GSI. Poi ha invitato i “paesi in via di sviluppo” a opporsi alle sanzioni unilaterali e all’approccio del ‘piccolo cortile, alta recinzione’”. Chiaro riferimento alla versione americana del “de-risking” europeo che solo di recente si è concretizzata con l’introduzione delle prime restrizioni sugli investimenti tecnologici in Cina. Così come non ci sono dubbi su a chi si rivolgesse Xi nel dire che “alcuni paesi, ossessionati dal mantenimento della propria egemonia, hanno fatto di tutto per paralizzare i paesi emergenti e in via di sviluppo con l’obiettivo del contenimento”.

Sono parole che ricevono ampio ascolto in Africa, dove le ferite dell’imperialismo occidentale sono ancora aperte. Una forte relazione e una proficua cooperazione Cina-Africa “daranno nuovo slancio allo sviluppo globale e assicureranno una maggiore stabilità del mondo”, ha scritto il presidente cinese in un articolo pubblicato pochi giorni fa dai media sudafricani. Secondo il leader di Pechino, 2,8 miliardi di cinesi e africani sono chiamati a “una responsabilità internazionale” e a “una missione storica”. Xi ha parlato di “iniziative di sviluppo più attive, efficaci e sostenibili”, con un focus particolare sulla cooperazione nell’agricoltura, nell’industria manifatturiera, nella nuova energia e nell’economia digitale.

Si intravede quel concetto di “sogno sino-africano” teorizzato da Xi nel 2015: la Cina, ex fabbrica del mondo, ha molto da insegnare al continente in termini di sviluppo economico. Anche considerando gli errori commessi: la crescita trainata dagli investimenti infrastrutturali ha permesso al gigante asiatico di superare brillantemente la crisi finanziaria globale del 2008. Ma mai come oggi mostra i suoi limiti: gli smottamenti del settore immobiliare affondano le radici in un paradigma di sviluppo che per due decenni ha alimentato l’accumulazione di debiti sommersi. Un tema molto sentito nel continente.

L’Africa non chiede più alla Cina investimenti, bensì modernizzazione industriale, ha spiegato Wu Peng, responsabile per l’Africa presso il ministero degli Esteri cinese, alludendo ai 160 miliardi di dollari prestati dal gigante asiatico nella regione e che negli ultimi trent’anni l’hanno reso responsabile per il 13% del debito africano.

I sospetti sul rientro anticipato di Xi in Cina – Ma mentre la Cina rafforza il suo appeal nel Sud globale, il cosiddetto “mondo sviluppato” guarda con preoccupazione alla crescente opalescenza della seconda potenza mondiale: l’inspiegabile assenza di Xi al Brics Business Forum, sostituito senza preavviso dal ministro del Commercio, non contribuisce a dissipare l’impressione che – aldilà dei proclami – la Cina sia in realtà sempre più chiusa e meno accessibile. Solo pochi giorni fa Pechino ha sospeso il rilascio sui dati della disoccupazione giovanile, schizzata al 21% nel mese di luglio. “La gigantesca nave dell’economia cinese continuerà a cavalcare il vento, a fendere le onde e ad andare avanti”, ha rassicurato Xi a Johannesburg sottolineando come la Repubblica popolare vanti un “mercato di grandi dimensioni”. Difficile condividere tanto ottimismo davanti ai guai dei colossi del mattone e alla stentata ripresa dei consumi nell’era post Covid. Che quell’ottimismo sia poco sentito anche in patria parrebbe suggerirlo la breve durata della visita africana: forse troppo preso dai problemi interni, secondo l’agenda ufficiale, Xi tornerà a casa giovedì rompendo con una tradizione che dal 2013 lo ha sempre visto agganciare la permanenza in Sudafrica alla visita di altri paesi vicini. E’ vero: dopo la pandemia il presidente cinese ha molto limitato i viaggi all’estero. Ma dopo cinque anni di assenza dal continente il rimpatrio anticipato risulta quantomeno un po’ sospetto.

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