La politica italiana è una lanterna magica che proietta immagini deformate della realtà. Del resto, come lo è l’intero immaginario creato dalle tecnologie del potere da alcuni secoli; da quando grandi leader espressione della plutocrazia scoprirono che mandare il popolo a combattere falsi bersagli era molto più economico del creare costosi apparati di sorveglianza dei ceti pericolosi. Un’operazione che all’inizio del Novecento utilizzò gli armamentari ideologici spedendo masse operaie, tendenzialmente pacifiste e internazionaliste, a morire nelle trincee del primo conflitto mondiale al suono della diana patriottica; l’estrema finzione che nella nascente Unione Sovietica diventava la promessa del comunismo (elettrificazione più i soviet) e i kulaki (piccoli proprietari agricoli) perseguitati come biechi capitalisti; nel fascismo italiano il mito repressivo dell’ordine e nel nazismo quello omicida della razza (carte che poi si mischiarono).

Dalla fine del secolo scorso l’opera mistificatoria si è giovata delle emergenti tecnologie comunicative, per cui la destra americana combatteva lo Stato sociale diffondendo l’immagine della Bestia da affamare con i tagli alle tasse e Berlusconi idealizzava la conquista del potere come rivoluzione liberale che sconfiggeva comunisti ormai estinti e giudici intenzionati ad applicare le leggi (esposti al pubblico ludibrio in quanto “giustizialisti”, nell’uso distorto del termine). A inizio del Terzo Millennio l’ascesa del soggetto indignazione per le devastazioni prodotte dalla finanziarizzazione del mondo venne liquidata come populismo. Sempre la stessa strategia mimetica delle reali intenzioni del potere, messa in atto grazie al controllo degli apparati per produrre le rappresentazioni del mondo in linea con il pensiero pensabile; l’ortodossia giustificativa degli assetti dominanti. Operazione che funziona grazie alla rimozione di qualsivoglia contrappeso in grado di smascherare l’imbroglio; proclamare che il re è nudo: dalla libera stampa al ruolo del lavoro organizzato, dalla democrazia competitiva e dell’alternanza alla funzione di contropotere svolta dall’associazionismo di genere e/o interessi.

Nel silenzio di qualsivoglia voce fuori dal coro, l’accreditamento della distorsione, anche la più spudorata, diventa irresistibile. Anche nella mente di persone animate dai più generosi propositi. Magari tendenzialmente antisistema, eppure in balia delle proiezioni distorsive di quel sistema. Lo pensavo settimane fa avendo letto l’intervista di una signora che ho sempre apprezzato, soprattutto per la sua attenzione a schivare la trappola del luogo comune come controllo sociale, che caratterizza il nostro dibattito pubblico da qualche decennio: una vera e propria macchina di colonizzazione delle menti.

Mi riferisco all’intervista rilasciata da Sabrina Ferilli a una rivista patinata, in cui si allinea all’ultima invenzione linguistica per sterilizzare ogni pur vaga apparizione che possa disturbare il manovratore: l’appellativo “troppo radicale” affibbiato alla neo-segretaria del Pd Elly Schlein, uniformandosi al tam-tam dei renziani (dentro e fuori Pd), all’unisono con la prevalente informazione pompieristica.

A parte il fatto che non si capisce cosa significhi “troppo radicale” (poco compromissoria? Non allineata alla narrazione tipo Pangloss del migliore dei mondi possibili? Blandamente femminista in materia di diritti?) quando è certo che la ragazza non è Rosa Luxemburg e neppure Dolores Ibarruri, la Pasionaria. È una persona animata da buoni propositi che si muove nel suo partito con le prudenze di un ospite in casa d’altri. Certamente non assoldabile alla banda degli adepti al continuismo immobilista (chiamato ironicamente riformismo), che vanno dai Stefano Bonaccini fino ai Carlo Calenda, per arrivare alle amazzoni renziane tipo Boschi e Paita. Eppure qualche suo vago cenno di non allineamento al mainstream ha messo subito in allarme tali guardiani, preposti a tutelare l’apparenza illusoria alla Truman Show in cui continuiamo a vegetare. Tizi che da tempo avevano messo nel mirino un altro non iscritto al garden club degli insiders – Giuseppe Conte – delegittimato su tutta la linea; a partire dall’eccesso di finanziamenti ottenuti dall’Ue col Recovery Fund, e finire con l’abbigliamento (la maldestraggine del lookologo di campagna Max Panarari; che lo irrideva quale uomo-pochette, confondendo l’ornamento multicolore a sbuffo con il candido fazzoletto a tre punte che spunta dal taschino del leader 5S).

Dunque, l’apoteosi del fasullo, che però applica una regola canonica della comunicazione: ripetendo all’infinito un assunto, anche il più bizzarro, anche il più destituito di fondamento, si finisce col renderlo indiscutibile. Il colpo di sole in cui è incappata anche una persona rispettabile come la Ferilli.

La lanterna magica del Truman show, che già nell’Ottocento si ispirava al detto “è meglio che la gente non sappia come si fanno le salsicce e la politica” (Bismarck).

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