Due donne, Susan e Azzurra, sono morte a distanza di un giorno l’una dall’altra nel carcere di Torino. La prima si è lasciata morire, la seconda si è tolta la vita deliberatamente. Qualche settimana fa, il 28 di giugno, era stata Graziana a mettersi un cappio attorno al collo.

Storie molto diverse tra loro, accomunate dalla distrazione che il carcere ha sempre più per le persone che rinchiude e, in misura ancora maggiore, per le donne.

Le donne in carcere sono una piccola percentuale, poco più del 4% della popolazione detenuta. Una cifra che si mantiene stabile da decenni. La media mondiale è circa del 9%, più alta di quella italiana ma sempre nettamente minoritaria. Inoltre, sono tendenzialmente in carcere con pene brevi, legate a piccoli reati dallo scarso allarme sociale. Bisognerebbe interrogarsi a fondo sul perché le donne delinquano tanto meno degli uomini, superando le spiegazioni parziali e insoddisfacenti che storicamente sono state proposte. Probabilmente capiremmo molte cose, non del carcere o delle vicende criminali, ma di noi stessi e della società che abitiamo.

Le donne in carcere sono poche, e quindi si tende a dimenticarle. Le carceri femminili sul territorio nazionale sono solo quattro: a Roma, a Venezia, a Pozzuoli e a Trani. Tutte insieme ospitano circa un quarto delle donne detenute in Italia. Gli altri tre quarti sono sparsi nelle tante sezioni femminili all’interno di carceri a grande prevalenza maschile. Sezioni che possono arrivare a ospitare più di cento donne, come accade a Milano Bollate e appunto a Torino, ma anche solo poche decine o addirittura due o tre (a Mantova, a Barcellona Pozzo di Gotto). Per queste donne, la coperta è quasi sempre troppo corta. Le sempre scarse risorse economiche, di personale, di attività, di volontariato di cui la direzione si trova a disporre verranno inevitabilmente convogliate verso la parte del carcere che ospita centinaia di uomini, non verso quella dove le poche donne si ritrovano a oziare dimenticate. Ma sbagliato sarebbe chiudere queste sezioni e allontanare le donne dai loro riferimenti territoriali, dalle loro famiglie, dai loro figli.

Scegliemmo simbolicamente lo scorso 8 di marzo per presentare al Senato “Dalla parte di Antigone. Primo rapporto sulle donne detenute in Italia”. Il racconto di un grande viaggio collettivo effettuato nei mesi precedenti, lungo il quale visitammo tutte le strutture che ospitano donne detenute in Italia: le carceri femminili, le sezioni, gli istituti a custodia attenuata per detenute madri, il carcere e le sezioni femminili minorili, le sezioni che ospitano detenute trans. Entrammo ovunque, osservammo, leggemmo il disagio, cercammo di analizzare le varie situazioni sotto i tanti aspetti della vita detentiva: la solitudine, la tutela della salute, il rapporto con il mondo esterno, il bisogno di lavoro, di istruzione e di formazione professionale, la violenza di genere.

D’altra parte era stato lo stesso Parlamento nel 2017 a chiedere al Governo tra le altre cose nella legge delega per la riforma dell’Ordinamento Penitenziario di prevedere “norme che considerino gli specifici bisogni e diritti delle donne detenute”. Molto poco poi era stato fatto, ma era comunque stata avvertita dal legislatore – anche allora su spinta di Antigone – l’esigenza di dedicare una maggiore attenzione specifica a quella minoranza costituita dalle donne in carcere.

Nel nostro rapporto presentato lo scorso 8 marzo, frutto di conoscenza sul campo, avanzavamo dieci proposte che mettevamo a disposizione del Governo, del Parlamento, dell’Amministrazione penitenziaria. Proposte di buon senso, che non avevano nulla di rivoluzionario. Proponevamo ad esempio che le donne recluse in piccole sezioni potessero essere ammesse a frequentare classi scolastiche o corsi professionalizzanti insieme agli uomini. Troppe volte, di fronte all’ozio forzato nel quale le vedevamo immerse, ci eravamo sentiti rispondere che erano troppo poche per attivare una classe. Si rinuncia al diritto all’istruzione, vero strumento di emancipazione dalla vita criminale, per un anacronistico divieto di incontro che lascia il carcere indietro ai secoli passati. Chi mai oggi si sognerebbe di non volere classi miste nelle scuole dei nostri figli?

Chiedevamo poi un’attenzione specifica dal punto di vista medico e, ancor più, un’attenzione agli abusi subiti da troppe donne che varcano i cancelli del carcere e una loro presa in carico sanitaria, psicologica, sociale. Un’attenzione specifica per le donne, a tutti i livelli e con serie competenze di genere, avrebbe potuto mitigare la solitudine che le investe in carcere e aiutarle a riprendere in mano le fila della loro vita, a fronte di reati spesso ben poco gravi e legati a pregresse condizioni di emarginazione sociale.

Quel giorno al Senato ci fu detto che sì, che certo, che le nostre proposte erano assolutamente condivisibili e che subito ci si sarebbe attivati per metterle in atto. Ci fu mostrato stupore perché ancora non si procedeva lungo le linee da noi indicate. Ma davvero le donne stanno chiuse in cella tutto il giorno perché non possono sedere nella stessa classe degli uomini? Ma davvero nelle sezioni femminili non ci sono esperti di medicina di genere? Ma davvero la presa in carico psicologica è così scarsa, anche per le donne che hanno subito violenza di genere e che hanno dentro una disperazione che non sanno gestire e della quale faticano perfino a comprendere l’origine?

Ma niente è stato fatto da allora a oggi. Le carceri continuano a essere dimenticate dalla società e le donne detenute continuano a essere dimenticate dal carcere. E Azzurra, Susan e Graziana non ci sono più.

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