La Russia sta vendendo il suo petrolio a sconto rispetto alle quotazioni internazionali (86 dollari al barile) ma al di sopra del tetto di 60 dollari fissato dalle nazioni occidentali come forma di sanzione. Così, secondo i dati dell’Agenzia internazionale dell’energia, sebbene i quantitativi siano scesi, lo scorso luglio le entrate del Cremlino derivanti dalle esportazioni di petrolio e carburanti hanno raggiunto il valore più alto dallo scorso novembre: 15,3 miliardi di dollari (+ 20% su giugno ma in calo rispetto all’anno prima). Il greggio russo è stato venduto in media a 64,4 dollari al barile, in rialzo di 8 dollari, in scia all’aumento delle quotazioni globali e ai tagli decisi dall’Opec. Mosca continua ad esportare circa 7,3 milioni di barili al giorno che si dirigono via mare per lo più in Cina ed India.

Nel 2022 la Russia ha incassato ha incassato dalla vendita di petrolio 142 miliardi di dollari, dai prodotti raffinati 83 miliardi e dal gas altri 108 miliardi. Il price cap sul petrolio russo è stato introdotto lo scorso 5 dicembre. Il tetto fa perno sui sistemi assicurativi dei carichi, indispensabili per le spedizioni. Questi contratti sono siglati per lo più a Londra e agli assicuratori è vietato procedere per importi superiori a quelli della soglia indicata. Tuttavia Mosca ha una certa capacità di gestire autonomamente queste pratiche “burocratiche” che riguardano la commercializzazione di greggio e raffinati, rendendo così meno stringenti gli effetti delle limitazioni occidentali. Uno dettagliato studio dello scorso aprile aveva già evidenziato una certa porosità del sistema del price cap con transazioni spesso al di sopra del prezzo consentito. In particolare in Cina, forse anche per ragioni geopolitiche, le compravendite non sarebbero mai avvenute con grandi sconti rispetto alle quotazioni di mercato.

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