L’appuntamento è alle 11,00 davanti l’ingresso dell’ex miniera del Bois du Cazier di Marcinelle, in Belgio, dove l’otto agosto del 1956 si consumò una delle più grandi tragedie del secondo dopoguerra. Quella mattina una scintilla provocò un incendio che riempì di fumo tutto l’impianto sotterraneo causando 262 vittime. 136 gli immigrati italiani che morirono intrappolati sotto terra. Uno di loro si salvò “per fortuna” come lui stesso dice. Urbano Ciacci pochi giorni prima dell’8 agosto 1956 tornò in Italia per sposarsi e così sopravvisse.

Quando incontra il Fattoquotidiano.it indossa la tuta blu da minatore e, cinturata al corpo, accesa, la vecchia lampada con la quale scendeva in miniera. “Mi trovo a mio agio più con la tuta da minatore che con il vestito di matrimonio”. Sulla giacca della tuta, appesa come una spilletta, ha una medaglia con il numero 709, il numero identificativo di Urbano Ciacci e dei suoi attrezzi. Intorno al collo porta un fazzoletto rosso: “Serviva per coprirmi il volto a metà e ripararmi dalle polveri sottili che andavano nei polmoni”, racconta Ciacci.

Nato a Fano, nelle Marche, non aveva ancora compiuto diciannove anni quando, nel 1954, partì per il Belgio per lavorare in miniera. A spingerlo verso una terra straniera furono le condizioni di fame in cui versava l’Italia del secondo dopoguerra. Una sorte toccata a cinquantamila italiani, operai e minatori, che si trasferirono nelle miniere del Belgio dopo un accordo siglato dal governo italiano e da quello belga che prevedeva l’invio di duemila minatori alla settimana. Il governo belga si impegnava a garantire ai lavoratori italiani dei logements, cioè degli alloggi, di fatto ciò che era rimasto dei campi di concentramento costruiti durante l’occupazione nazista per i prigionieri di guerra sovietici. “Questi capannoni erano le nostre case, vivevamo due nuclei familiari in ogni struttura e prendevamo l’acqua fuori, lì nel campo, dove c’era una fontana”, spiega Urbano Ciacci.

Seduto all’ombra di un albero, vicino alla sala d’accoglienza del Museo Bois du Cazier, che così ha dato lustro all’ex miniera di Marcinelle, Urbano oggi racconta le sue giornate in miniera: “La mattina alle sette iniziava il primo turno di lavoro, partiva il primo ascensore fino a una profondità di 900 metri sottoterra per raggiungere il primo pozzo. Prima delle 15,00 non si poteva uscire, dovevamo fare otto ore in quel buco nero. E per guadagnare la minima giornata si doveva scavare tre metri di carbone di lunghezza su un metro di profondità. Più metri facevi, più soldi guadagnavi”. C’è chi ha fatto soldi in quel periodo, ma molti si sono ammalati a causa delle condizioni insalubri. Come fosse un ricorso storico, il lavoro in cambio della salute. Il carbone che vale più della vita dei minatori.

Tutto è conservato con cura a Marcinelle, la vecchia ferrovia che portava dentro la miniera, i macchinari che fanno parte del museo industriale, i vagoni che trasportavano il carbone, gli spogliatoi dove si vestivano e svestivano i minatori. C’è silenzio a Marcinelle, anche se ogni giorno si aggirano scolaresche e turisti che visitano i luoghi della tragedia, quasi come fosse un luogo di culto. Soprattutto il Memoriale: una stanza con 262 foto in bianco e nero dove si sente solo una voce fuoriuscire da un altoparlante che scandisce, uno per uno, i nomi e le città di provenienza dei minatori defunti. Urbano Ciacci li conosceva tutti e quando entra dentro la stanza del Memoriale, a stento trattiene le lacrime: “Come si fa a dimenticare tutto ciò? Qui ci sono i cinque di Manoppello, in Abruzzo, tutti della famiglia Iezzi. Da questa parte ci sono i due gemelli di quindici anni, e qui c’è Armando Zanelli, il mio amico, dormivamo insieme”. Lui quel giorno non era lì a Marcinelle. Era tornato in Italia per sposarsi è così si è salvato. E quando il 9 di agosto, alla stazione di Milano, i giornali titolarono “Tutti morti a Marcinelle”, Urbano Ciacci non poté che raccontare del disastro alla moglie: proprio in quel momento erano diretti a Charleroi. “Quando arrivammo ricordo come fosse oggi le grida di dolore, i pianti dietro il cancello di entrata, dei parenti delle vittime. Scene di dolore che non ho mai più visto nella mia vita. Fu la più grande tragedia del dopoguerra”.

Alla veneranda età di ottanta anni Urbano Ciacci è la guida turistica per eccellenza al Museo Bois Du Cazier, continua a raccontare Marcinelle alle nuove generazioni, ha portato la sua testimonianza al Parlamento europeo, la sua verità e il suo vissuto. Urbano Ciacci è l’ultimo sopravvissuto al disastro di Marcinelle.

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