Viviamo in un mondo maledettamente pop dove il marketing delle bambole si mescola alla bomba atomica in una doppia uscita americana che sta facendo i numeri. Leggerezza e gravità assolute stanno alla base dei due film del momento. Ai tempi di Tenet Christopher Nolan era stato salutato come il salvatore del cinema globale durante il precipizio dovuto al Covid. Il sistema risente ancora di quegli echi, le piattaforme sono più forti di ieri ma Nolan torna con un’opera poderosa, complessa e profondamente cinematografica che alterna gli sci-fi fatti di pieghe spaziotemporali e dimensioni alternative per rileggere su grande schermo la storia. E dopo Dunkirk è la volta della biografia Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato (American Prometheus) scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin nel 2005.

Nel suo Oppenheimer il regista londinese si sofferma sull’uomo ossessionato dalla fissione atomica e con l’anima imbrigliata negli occhi tondi di Cillian Murphy. Ci mostra i sogni celati dai suoi silenzi con un fragore Imax che fa tremare il torace durante quelle immagini di atomi giganteschi quando li vediamo scontrarsi come pianeti cannibali. Ci accompagna in un’impeccabile danza di montaggio di linee temporali tra bianco e nero e colore. Passato e presente del fisico che coordinò i lavori per la realizzazione della bomba atomica vengono intrecciati con la sua ossessione volta all’abbattimento dei limiti attraverso formule per dischiudere i segreti della materia.

La montatrice Jennifer Lame ha lavorato, oltre a Tenet e Oppenheimer, a ben cinque film diretti da Noah Baumbach, sceneggiatore proprio di Barbie, il fenomeno cinematografico del momento con i suoi 14 milioni di euro in Italia (quarto incasso della stagione cinematografica italiana 2022/2023) e 495 milioni di dollari incassati nel mondo, il doppio dei 230 milioni di Oppenheimer. Ma in Italia uscirà solo il 23 agosto. E la Warner Bros è anche la stessa major con cui Barbie e la Mattel aprono il loro cine-sodalizio, mentre Nolan ci ha girato tutto il suo cinema tranne Oppenheimer, iniziando un nuovo corso con Universal.

Robert Oppenheimer è un personaggio controverso, quasi insondabile, un ebreo mosso anche dalla umana rivalsa sui nazisti che mostra alcuni lati oscuri che lo portarono dagli altari alla polvere della popolarità americana. L’Olocausto contro l’atomica su Hiroshima e Nagasaki come cortocircuito di significato sospeso tra morte, sopravvivenza e pace. Giustizia e vendetta, pace e guerra contrastanti come quelle possenti molecole visionarie di Nolan scatenanto un senso di colpa antico, un peccato originale novecentesco per l’umanità attraverso quella bomba per interrompere la Seconda guerra mondiale.

La preoccupazione per la distruzione di massa la percepiamo nello sguardo rugoso e rammaricato di Einstein. Rappresenta lui la coscienza civile del film, al margine di questa storia come il vecchio fisico che aprì la strada a Oppenheimer ma non favorì mai il Progetto Manhattan per la costruzione dell’ordigno. Nolan ci culla amaramente nel grande conflitto morale dell’Occidente, un po’ come fece Kubrick in una sola scena finale con Peter Sellers. Nolan dura invece tre ore e si serve di attori perfetti e taglienti nelle loro performance intorno a Murphy. A partire da Robert Downey Jr. e Matt Damon, filantropo l’uno e generale dell’esercito l’altro, a sfruttare, incanalandola, tutta la potenzialità creativa e scientifica di Oppenheimer. Il film, fedelmente a un patriarcato d’oltreoceano, relega però le figure femminili a mero sfondo narrativo poco o nulla determinanti neanche nella vita domestica, fedelmente a quell’epoca maschilista.

Affronta invece il patriarcato con leggerezza Barbie di Greta Gerwig (regista anche degli ottimi Lady Bird e Piccole Donne). Il suo Ken ne scopre il significato tentando una bislacca rivolta contro le donne di plastica, ma nella realtà l’immaginario collettivo catalogò già il rosa come colore per le bambine, mentre di milioni di loro ora donne accarezzano i ricordi dei giochi infantili guardando un film che si muove esattamente come le loro vecchie storie per sognare giocando tra pettini e giunture in gomma. Fu la moglie di un fondatore della Mattel, nel 1959, a suggerire al marito di realizzare una bambola adulta, non più neonata da accudire ma giovane donna da imitare: così nacque Barbie, controverso simbolo di emancipazione. Dopo decenni e milioni di bambole vendute per fare giocare le bambine di mezzo mondo, il colpo gobbo di Warner sta nel coinvolgimento di Gerwig e del marito Baumbach, appunto, coppia di cineasti indie che ha fatto molto bene al cinema americano negli ultimi dieci anni.

Ironici e giocosi, i due accelerano subito scimmiottando affettuosamente 2001: Odissea nello Spazio. Ma soprattutto costruiscono una schiera di bambole capitanata da Margot Robbie e bambolotti guidati da Ryan Gosling. Entrambi di un candore comico trascinante, del quale elemento chicca è lo sfigatissimo Allan di Michael Cera. La visione parodica dei generi e sui generis degli autori pone intorno ai protagonisti un cast che a volte sembra ammiccare mondi cinematografici paralleli senza citarli. La Marvel, con altri due Ken, Simu Liu (già protagonista del cinecomic Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli) e Kingsley Ben-Adir (villain nella serie Secret Invasion su Disney+). Da Netflix saccheggiano invece tre protagonisti dalla serie Sex Education: Connor Swindells (dipendente Mattel nel mondo “reale” al servizio dello strambo Ceo Will Farrell), Emma Mackey (Barbie Fisica) e Ncuti Gatwa (un altro Ken). Senza contare i tanti cameo, da John Cena a Dua Lipa. La coppia d’autori capovolge e fa girare abilmente su se stesse le auto rosa quanto le fluidità dei personaggi in un’epifania trasversale sia per età del pubblico, sia per il gender. Si potrebbe spiegare anche così il successo strabordato in Barbiemania.

Barbie è una bambola a prescindere dal cinema e rappresenta un paradigma capitalistico in quanto fenomeno commerciale e di costume così come Oppenheimer costituisce la lancetta storica tra le due più grandi tragedie dell’umanità: l’atomica e l’Olocausto. Venere e Marte appunto. La bellezza come plastico cliché fatto di sogno imbambolato e la guerra più grande di tutte per imporre le ragioni dell’Occidente novecentesco. E noi, imbambolati o meno, in un 2023 purtroppo ben lontano dalla pace in Europa ne facciamo un monumentale potpourri da grande schermo.

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