“Quello è un duro, meglio di un vero uomo d’onore“. Il virgolettato appartiene a Nino Buscemi, fratello di Salvatore, capomafia della famiglia di Passo di Rigano, a Palermo. Imprenditore per conto di Cosa nostra, quando pronuncia quella frase Buscemi si riferisce a Lorenzo Panzavolta, detto Panzer: nato a Ravenna nel 1922, aveva fatto il partigiano, si era fatto le ossa nelle cooperative rosse prima di diventare uomo di fiducia del vecchio Serafino Ferruzzi. Poi, con la morte del fondatore, continua a lavorare per il gruppo di Ravenna quando al comando arriva Raul Gardini. Che c’entra uno come Panzavolta coi Buscemi, famiglia di antiche tradizioni mafiose vicinissima a Totò Riina? E perché un ex partigiano cresciuto nelle coop romagnole viene definito “meglio di un vero uomo d’onore“? Semplice: Panzavolta, al vertice della Calcestruzzi, all’epoca società del gruppo Ferruzzi, ha stretto un accordo con la famiglia Buscemi per ottenerere l’incontrastato sfruttamento delle cave in Sicilia. E in questo modo che alcune aziende del gruppo Ferruzzi-Gardini entrano praticamente in società con Cosa nostra, aggiudicandosi una fetta dei miliardari appalti pubblici in una terra dove a reggere il grande gioco delle tangenti non ci sono solo imprenditori e politici, ma anche gli uomini di Riina. È per questo motivo che l’ex partigiano Panzer, l’uomo di Gardini nel mondo degli appalti, sarà condannato in via definitiva per concorso esterno a Cosa nostra.

Di tutta questa storia, però, non c’è traccia nella fiction che la Rai ha dedicato proprio a Gardini, nel trentesimo anniversario della sua morte. Come ha raccontato Gianni Barbacetto, l’imprenditore soprannominato “il Corsaro” viene ricordato soprattutto le imprese del Moro di Venezia alla coppa America di vela e per la grande scommessa dell’Enimont, cioè il tentativo d’unire tutta la chimica italiana in un unico grande gruppo industriale. Scommessa persa, che costa a Gardini la “madre di tutte le tangenti”: più di 150 miliardi di lire da versare alla politica per uscire dalla joint venture con l’azienda del cane a sei zampe. È anche di quello che deve parlare Gardini la mattina del 23 luglio del ’93: il pm Antonio Di Pietro lo aspetta al Palazzo di Giustizia di Milano per interrogarlo. Gardini, però, in via Freguglia non ci arriverà mai: si toglie la vita con un colpo di Walther Ppk calibro 7,65 nella sua casa di Milano, nel settecentesco Palazzo Belgioioso. Così non dovrà mai rispondere alle domande sulla maxi tangente Enimont. Ma forse non solo a quelle.

Angelo Siino, ex pilota di rally che correva con lo pseudonimo di Bronson, era il “ministro dei Lavori pubblici” di Cosa nostra: da pentito ha svelato i segreti del “tavolino“, cioè il sistema che regolava gli appalti in Sicilia. Fino agli anni ’80 Cosa nostra si era sempre interessata al mondo dei lavori pubblici, ma spesso lasciava gli affari in mano ad aziende e a partiti amici, limitandosi poi a “mungere” gli imprenditori e a chiedere favori ai politici. Intorno al 1986, però, nasce un nuovo sistema: i vincitori degli appalti vengono decisi in anticipo grazie agli accordi tra imprese e politica. I lavori vengono assegnati con ribassi minimi, in modo da ottenere più soldi da spartire. È lo stesso meccanismo che si era sviluppato a Milano e a Roma e che verrà poi svelato da Mani pulite. Solo che a Palermo aggiungono una terza componente: Cosa nostra.

È questo il “tavolino“, attorno al quale si siedono i politici, gli imprenditori e i mafiosi. Il padrone di tutto il sistema è Riina, dittatore incontrastato di Cosa nostra che su ogni affare percepisce lo 0,8% di tangente personale: la chiamano la tassa Riina. Alla gestione del tavolino, invece, si alternano diversi personaggi: da Siino si passa a Filippo Salamone (imprenditore di Agrigento e fratello di Fabio, il pm di Brescia che farà la guerra a Di Pietro) e a Pino Lipari. Ed è quest’ultimo che ha l’idea di allargare il “tavolino” alle aziende del Nord Italia. Per spartirsi una fetta della ricca torta siciliana scendono in massa: arrivano la Fiatimpresit del gruppo Agnelli, la Lodigiani di Milano, la Rizzani De Eccher di Udine, le coop rosse dell’Emilia Romagna. E pure la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi, cioè la prima produttrice di calcestruzzo d’Italia, che all’epoca era il primo Paese a consumare calcestruzzo in Europa. A guidare la società è Panzavolta, mentre a rappresentarla in Sicilia è l’ingegner Giovanni Bini. Ma i romagnoli non partecipano solo agli appalti. Fanno di più: entrano in società con le aziende mafiose. Già nel 1982 Panzavolta compra da Buscemi il 40 percento della cava Occhio di Palermo. Due anni dopo, quando ai Buscemi arriva un mandato di cattura e dunque cominciano a temere un sequestro dei beni, ecco che la società del gruppo Gardini acquista la Calcestruzzi Palermo, la società dei Buscemi. Per i giudici si tratta di una “una vendita simulata avente il solo scopo di evitare il sequestro e la conseguente confisca di alcuni terreni intestati alla Calcestruzzi Palermo”. Tecnicamente, dunque, il gruppo Ferruzzi diventa socio e prestanome delle aziende di Cosa nostra. Secondo Giovanni Brusca, il boia di Capaci poi diventato collaboratore di giustizia, “la quota dei grandi appalti spettante a Cosa nostra veniva attribuita per il tramite delle società facenti parte del gruppo Ferruzzi”.

È invece Siino a raccontare come nel 1987 Gardini si sarebbe rivolto ai Buscemi per avere un aiuto: al cimitero di Ravenna è stata trafugata la salma di Serafino Ferruzzi. Il tentativo di recuperare la bara del fondatore va a vuoto ma secondo l’ex ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra “Gardini rimase assai grato ai Buscemi e si mise a disposizione per aggiustamenti di processi grazie alle amicizie che vantava fra i politici”. Accuse, queste ultime, mai dimostrate. Come non è mai stato chiarito a cosa si riferisse Giovanni Falcone il 15 marzo del 1992, quando a un convegno al Castello Utveggio di Palermo pronuncia pubblicamente una frase che aveva giù usato in passato: “La mafia è entrata in borsa“. Che intendeva dire il giudice? Nessuno avrà il tempo di chiederglierlo visto che due mesi dopo Falcone salta in aria a Capaci. “Questa sua presa di posizione allarmò non poco il mondo di Cosa nostra perché sostanzialmente si riferiva alla quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi-Gardini”, ha sostenuto davanti ai magistrati il pentito Siino. Che è pure tra i principali accusatori di Panzavolta, condannato in via definitiva a sei anni e mezzo per concorso esterno, e di Bini, che invece ha preso otto anni per associazione mafiosa. La sentenza della Cassazione è del 2008 ma l’inchiesta scatta nel 1997 quando l’ex partigiano finisce ai domiciliari. Nell’ordinanza il giudice scrive che “da parte dei vertici della Calcestruzzi di Ravenna, Gardini e Panzavolta e dei più stretti collaboratori di questi ultimi vi sono stati stretti rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra che vanno ben al di là del ‘semplice’ rapporto societario con i Buscemi o della mera, fittizia intestazione di beni”. Nelle carte dell’indagine i magistrati scrivono anche che “non risultano acquisiti elementi per affermare né per escludere che Salvatore Riina abbia investito propri capitali nelle attività imprenditoriali del gruppo Ferruzzi”. Come dire: si è anche ipotizzato che il capo dei capi di Cosa nostra avesse investito direttamente i suoi soldi negli affari del gruppo guidato da Gardini. È anche per questo motivo che “il corsaro”si toglie la vita il 23 luglio del 1993? “Credo che abbia avuto paura per le pressioni sempre più insistenti del gruppo mafioso sul carro del quale era stato costretto a salire, quello dei fratelli Nino e Salvatore Buscemi, legatissimi a Totò Riina“, è la lettura che ha dato Siino in un’intervista al Corriere della Sera del 2000. “Secondo me – continuava il pentito – Gardini ha capito che non era più in grado di sganciarsi dall’orbita mafiosa in cui era entrato”. Di tutta questa vicenda, però, non c’è traccia nella fiction della Rai. Trent’anni dopo il suicidio di palazzo Belgioioso, parlare dei legami delle grandi aziende del Paese con Cosa nostra è ancora vietato.

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