L’Italia è il Paese straordinario in cui nel giro di pochi giorni si riesce a beatificare la vittima ma anche il carnefice, a tributare omaggi agiografici a Raul Gardini (dedicandogli una docufiction Rai) e ad Arnaldo Forlani (paragonato nell’orazione funebre a Socrate). Nessuno pare accorgersi della contraddizione: eppure l’uno, Gardini, era colui che fu costretto a pagare la mazzettona Enimont; l’altro, Forlani, colui che ne incassò una bella fetta per conto della Dc. Sono passati esattamente trent’anni, ma l’Italia sembra non voler fare ancora i conti con quello che fu il momento più drammatico della stagione di Mani pulite, magari per scoprire che anche la vittima era un po’ carnefice. Era la mattina del 23 luglio 1993 quando Raul Gardini, il Corsaro, l’eroe del Moro di Venezia, uno degli imprenditori italiani più noti nel mondo, si toglie la vita con un colpo di Walther Ppk calibro 7,65. Quello stesso giorno, Gardini era atteso da Antonio Di Pietro alla Procura di Milano per un interrogatorio sulla “madre di tutte le tangenti”, la mazzetta Enimont da oltre 150 miliardi di lire (77 milioni di euro, ndr).

Enimont è stata la grande scommessa di Raul: unire tutta l’industria chimica italiana in un unico grande gruppo capace di competere sul mercato internazionale. Nasce dalla fusione delle attività chimiche di Montedison, del gruppo Ferruzzi guidato da Gardini, con le attività chimiche di Eni, la compagnia petrolifera di Stato. Il risultato è un colosso controllato al 40 per cento dalla Montedison e al 40 per cento da Eni, con il restante 20 nelle mani del mercato azionario. Ma i partiti della Prima Repubblica – che dalle imprese pubbliche e private succhiavano tangenti, nomine e potere – non vogliono perdere il controllo del nuovo colosso. E Gardini vuole fare da sé. Aveva avuto dai partiti la promessa che gli avrebbero concesso sgravi fiscali in cambio del conferimento a Enimont delle attività chimiche di Montedison. La promessa non viene mantenuta. In risposta, Gardini tenta di scalare Enimont mettendo in minoranza Eni. Proclama: “La chimica sono io”.

Lo fermano. Il sistema di Tangentopoli sferra il suo colpo di coda poco prima di essere scoperto da Mani pulite. Eni apre un contenzioso giudiziario con Gardini. Un giudice che poi si scoprirà essere corrotto, Diego Curtò, decide il blocco delle azioni Enimont. Raul capisce che i partiti lo vogliono fare fuori. Gli propongono il “patto del cow-boy”, o clausola “della roulette russa”: può comprare tutto oppure vendere la sua parte. Non può far altro che vendere. Ma una grossa fetta dei soldi che incassa deve versarli ai partiti: eccola, “la madre di tutte le tangenti”, più di 150 miliardi di lire spartiti con il manuale Cencelli, che per i due terzi passano attraverso i conti dello Ior, l’Istituto vaticano per le opere di religione. Intanto però nel febbraio 1992 era successo un fatto imprevisto: Antonio Di Pietro e gli altri magistrati del pool anticorruzione di Milano avevano avviato l’inchiesta Mani pulite: individuano centinaia di tangenti, scoprono il sistema di corruzione messo a punto dai partiti della Prima Repubblica; e s’imbattono anche nella maxi-mazzetta Enimont che Gardini aveva dovuto versare per poter sciogliere la joint-venture tra Montedison ed Eni.

Raul era abituato a vincere. Non accetta la sconfitta. Non sopporta di dover pagare anche le conseguenze penali di una tangente che considera un’estorsione. Potrebbe tentare di cavarsela (come altri imprenditori) sostenendo di essere stato concusso, cioè costretto a pagare. Ma intanto teme il carcere, si sente assediato e sconfitto. Abbandonato e tradito anche dagli amici e dai compagni di tante scorribande finanziarie. È solo, se si escludono i figli e la moglie Idina. Quella tragica mattina del 23 luglio 1993 estrae da un cassetto la sua Walther Ppk 7,65 e si spara. Tre giorni prima, il 20 luglio, si era ucciso in carcere, soffocandosi con un sacchetto di plastica, anche il suo grande avversario in Enimont, il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Quell’operazione finanziaria e industriale si trasforma nella madre di tutti i drammi.

Un colpo calibro 7,65 regola in un istante tre grossi problemi, pronti a esplodere come una bomba a grappolo. Il primo lo rilevarono subito tutti: Gardini sarebbe stato interrogato, e probabilmente arrestato, poche ore dopo, per la madre di tutte le tangenti. Il secondo si mostrò solo qualche tempo dopo: i conti della Ferruzzi erano disastrosi, Gardini aveva portato al crac il grande gruppo affidatogli dal vecchio Serafino Ferruzzi. Aveva fatto operazioni speculative sulla soia alla Borsa di Chicago e aveva perso circa 400 milioni di dollari, perdite che aveva poi nascosto nei bilanci delle società del gruppo. Per questo era già stato cacciato dalla famiglia Ferruzzi e sostituito da Carlo Sama.

C’è anche un terzo problema, che resta ancora oggi tabù: Gardini aveva consegnato alcune società del suo gruppo nelle mani della mafia. Era diventato, di fatto, socio di Cosa nostra. Intendiamoci: alla festa siciliana dei lavori pubblici, insieme a politici e mafiosi, partecipano senza batter ciglio anche le grandi imprese del Nord: la Fiatimpresit del gruppo Agnelli, la Lodigiani di Milano, la Rizzani De Eccher di Udine, la Tor Di Valle e la Federici di Roma, le cooperative rosse emiliano-romagnole. La Tangentopoli in Sicilia è più colorata, è il sistema del “Tavolinu” a tre gambe a cui si siedono, insieme, gli imprenditori, i politici e i boss di Cosa nostra. Così fan tutti. Ma il gruppo Ferruzzi fa qualcosa di più. Lorenzo Panzavolta, uomo di fiducia del vecchio Serafino che si era fatto le ossa nelle coop rosse romagnole, stringe un accordo con la famiglia Buscemi, mandamento di Boccadifalco, in forza del quale il gruppo di Gardini ottiene l’incontrastato sfruttamento delle cave in Sicilia, diventa il fornitore monopolistico di cemento nell’isola, conquista una fetta degli appalti pubblici. Le società operative che scendono in campo sono la Cisa, la Gambogi, la Calcestruzzi.

Nell’ottobre 1984 Buscemi e i suoi amici, appena ricevono un mandato di cattura e sentono odore di sequestro dei beni (per mafia, in forza della legge Rognoni-La Torre), chiedono aiuto a Ravenna e Ravenna prontamente interviene: la Calcestruzzi Palermo Spa (di Buscemi e Bini) viene acquistata dalla Calcestruzzi Spa (di Gardini), ma a comandare restano i boss. Il gruppo Ferruzzi diventa tecnicamente socio e prestanome di Cosa nostra. E la Calcestruzzi non è un’azienda qualunque, è la prima produttrice di calcestruzzo in Italia, che è il Paese che consuma più calcestruzzo in Europa. Scrivono i magistrati palermitani: “Gardini e Panzavolta ben sapevano di legare le loro sorti a quelle di soggetti di cui conoscevano l’influenza e il carisma nel contesto mafioso palermitano e anzi ritenendo proprio per questo di potere più facilmente introdursi nel difficile mercato siciliano”. Racconta il boss Giovanni Brusca: “La quota dei grandi appalti spettante a Cosa nostra ci venne attribuita per il tramite delle società facenti parte del gruppo Ferruzzi”. Raul Gardini non fece in tempo a vedere i risultati delle indagini antimafia siciliane. La mattina del 23 luglio 1993 compì la sua scelta più difficile. Definitiva. Chi è restato non riesce a fare i conti con il passato e continua a preferire, trent’anni dopo, l’agiografia e l’amnesia.

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