“Dove vogliono arrivare?” si chiede Gad Lerner nella sua articolessa domenicale. E la domanda è indirizzata alla banda Meloni che ci governa senza incontrare ostacoli nel suo attacco alle fasce più deboli della nostra società. In una sequenza di azioni irridenti/punitive – dalla paghetta una tantum di 382 euro (la carta canzonatoriamente “Dedicata a te”) quale sostitutivo del reddito di cittadinanza mensile, all’indifferenza nei confronti degli ex padroni di Fiat, che non hanno il benché minimo pudore nell’annunciare lo spostamento della produzione dei nuovi modelli d’auto in Marocco e Polonia alla faccia delle nostre maestranze– fatti e misfatti elencati puntigliosamente da Lerner, che non sto a ripetere.

Ebbene, questi vogliono arrivare ad azzerare un mondo intero che considerano estraneo e incomprensibile. Ostile e odiato. Il mondo cresciuto nella parte centrale del Novecento (età di Keynes) estendendo i diritti di cittadinanza agli strati popolari inferiori. La ragione per cui è fuori strada chi considera l’avvento meloniano come un berlusconismo al femminile.

Il quarto di secolo dominato dall’egemonia di Silvio Berlusconi era la vicenda di un avventuriero solitario che combatteva la battaglia senza esclusione di colpi per la propria affermazione (materiale, di straricco sotto permanente minaccia di esproprio, e psicologica, nel delirio d’onnipotenza dell’omarino con macroscopiche rivalse sociali). Dunque il creatore di un marchingegno bellico per obiettivi personali: le leggi ad personam, la sua. In cui si faceva largo uso delle elaborazioni comunicative e manipolatrici della destra repubblicana d’oltre oceano (nella fase preparatoria della svolta reazionaria, da Barry Goldwater a Ronald Reagan), seppure riconfezionate in salsa meneghina.

Il caso Meloni è diverso, perché la puffetta mannara non gioca da sola, bensì per conto di un duplice soggetto collettivo, destinatario dei vantaggi creati dal nuovo corso politico: le disposizioni ad personas, tanto per il branco in cui “Yo soy Giorgia” è cresciuta e di cui continua a circondarsi, come per il più generale ceto sociale in cui si identifica. Nella biografia sovrapposta di militante fin dalla più tenera età in una componente a lungo ghettizzata, quale l’estrema destra di estrazione fascista, e di appartenente alla micro-borghesia impiegatizia e bottegaia della semi-periferia romana.

Una sovrapposizione che indica e spiega le linee di tendenza della politica in atto. Nel salvataggio degli indifendibili – i protervi La Russa e Santanché, i super-pasticcioni Donzelli e Delmastro – vedo qualcosa di tribale: quasi l’ottemperanza a un patto di sangue primitivo che fonda e cementa l’appartenenza al branco, costi quel che costi. La versione farsesca della terribile e criminale assunzione “morale” – da parte di Benito Mussolini, nel suo discorso alla Camera dei deputati il 3 gennaio 1925 – della responsabilità per l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti; perseguito materialmente dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini.

A fianco di questa Meloni capobanda, c’è la referente – di classe – a un gruppo sociale con caratteristiche psicologiche ben definite: l’avversione impaurita per quel popolo del lavoro materiale, da cui persegue il distanziamento ostentando segni distintivi di status (impareggiabile l’uso meridionale della crescita dell’unghia del mignolo, a significare la propria astensione da qualsivoglia attività manuale) e ricercando la benevola protezione degli strati sociali superiori, offrendosi storicamente come massa di manovra per tenere a bada “le classi pericolose” e scimmiottandone (spesso risibilmente) le forme e le maniere estetiche.

Sicché potremmo dire che se la Seconda Repubblica di Silvio Berlusconi è stata lo specchio e un aspetto significativo dell’inesorabile americanizzazione al peggio dell’Italia nel tardo Novecento, la nuova stagione avviata dal premier Meloni è solo un rigurgito assolutamente italico di umori arcaici, che riemergono dagli abissi del nostro passato familistico e controriformista, autarchico e sciovinista. L’Italia ignorante, che allora spegneva gli ultimi bagliori del Rinascimento, mentre la tradizione civica declinava con il ritorno al modo di produrre latifondista; ora ben rappresentata da una battuta che circola da qualche giorno. Chiedono al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano: “Lei cosa ne pensa di Milan Kundera?”. “Partita indimenticabile!”.

Sembra evidente che questa combriccola di maldestri reduci dal passato non riesce a cavare un ragno dal buco alle prese con un progetto il cui obiettivo dichiarato è la modernizzazione dell’Italia, quale il Pnrr.

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