di Andrea Di Turi

Verso fine 2020 ha iniziato a prendere corpo l’iniziativa del #FossilfuelTreaty per un Trattato internazionale di Non-Proliferazione delle fonti fossili di energia, modellato sul Trattato di Non-Proliferazione nucleare del 1970.

Tre i pilastri: non proliferazione (stop immediato alla ricerca di nuovi giacimenti e all’espansione della produzione), riduzione graduale della produzione di combustibili fossili, giusta transizione. Richieste in linea con ciò che tutti gli organismi internazionali competenti in materia (in primis Ipcc-Intergovernmental Panel on Climate Change e Iea-International Energy Agency) dicono da un pezzo se si vuole avere qualche chance di evitare gli impatti più catastrofici dell’emergenza climatica. Che si aggrava ogni giorno, come vedono tutti tranne quelli che non vogliono vedere.

Bollato come un obiettivo da anime belle da quelli che io-so-come-va-il-mondo, da chi si trova nelle stanze dei bottoni, e questo preoccupa molto, a chi postando commenti rabbiosi su web e social cerca probabilmente invano di lenire le proprie frustrazioni, e questo ispira solo compassione, il Trattato guadagna consensi. Anzi, brucia le tappe.

Lunghissima la serie di endorsement ufficiali per il #FossilfuelTreaty, fra cui quello dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, del Vaticano e del Parlamento Europeo. Lo sostengono scienziati e accademici, premi Nobel, istituzioni e leader religiosi, centinaia di parlamentari di mezzo mondo, organizzazioni della società civile, istituzioni sanitarie. E soprattutto città, molte capitali. Che hanno un ruolo fondamentale nello spingere i rispettivi governi, che sono quelli che alla fine devono firmare i Trattati e che infatti iniziano ad arrivare. Stati piccoli, nazioni insulari del Pacifico, che però sollevano la questione della necessità del #FossilfuelTreaty per integrare l’Accordo di Parigi (che, incredibile ma vero, nemmeno menziona le fonti fossili) nel consesso più elevato che questa povera umanità sia stata capace di darsi: l’Assemblea Generale dell’Onu. A farlo è Vanuatu, nazione del Sud Pacifico, durante la Unga-United Nations General Assembly a settembre 2022. Guarda caso alla successiva Cop27 di Sharm el-Sheikh un’ottantina di Paesi vorrebbero inserire nel documento finale la richiesta di un phase-out di tutte le fossili. Non avverrà, alcuni “padroni del vapore” non vogliono, ma c’è il precedente.

Il 12 dicembre 2022, settimo anniversario dell’Accordo di Parigi raggiunto alla Cop21 nel 2015, Torino diventa la prima città d’Italia ad aderire ufficialmente al #FossilfuelTreaty. Dopo poco più di un mese arriva la seconda, Pontassieve (Firenze). Poi giorni fa, ai primi di luglio, ad aderire è addirittura la capitale d’Italia, Roma. La mozione è stata preparata e promossa dal Coordinamento Verdi-Sinistra ma viene votata all’unanimità. Più della capitale non si poteva chiedere, in termini di adesioni di città italiane di peso al #FossilfuelTreaty (nel mondo sono una novantina). Certo, più ne seguiranno, meglio sarà.

Sull’adesione di un governo come quello attualmente in carica in Italia non c’è da fare nessun affidamento. Diversamente sta accadendo in California, dove il senato ha già espresso il suo supporto al #FossilfuelTreaty e l’iter per l’adesione a livello statale potrebbe concludersi positivamente in tempi non lunghi. Poi ci sono le parole di António Guterres, Segretario Generale Onu, che da un pezzo ha preso ad affiancare gli Stati sull’abbandono delle fossili. Ultimamente ha detto: “Il problema non sono semplicemente le emissioni di combustibili fossili. Sono i combustibili fossili, punto”.

Prossima tappa: 15-17 settembre 2023, un’azione globale coordinata (“Global Fight to End Fossil Fuels. Fast. Fair. Forever“) per chiedere ai governi di porre fine all’era delle fossili, nei giorni degli incontri sul clima promossi dall’Onu a New York. La lotta, come sempre, continua.

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