“Ho vissuto in una tenda per due mesi, poi mio cugino mi ha proposto di andare a stare da lui, insieme ai miei tre figli. Sono vedova, non ho alcun introito. Prima dei terremoti mio zio che viveva con la sua famiglia in Turchia mi mandava qualcosa, poi sono morti tutti quanti”.

Sono le parole sconsolate di una vedova siriana. Fa parte dei 265.000 nuovi sfollati a causa dei terremoti che hanno colpito il nordovest della Siria a febbraio, che si sono aggiunti ad altri due milioni e 600.000 “vecchi” sfollati da zone di conflitto. In totale, compresi i residenti, quattro milioni di persone nel nordovest della Siria dipendono interamente dall’assistenza umanitaria, garantita dalle Nazioni Unite al momento attraverso un unico valico transfrontaliero, quello turco di Bab al-Hawa.

Un’assistenza imparziale indispensabile dato che nel 2014, quando la zona è finita nelle mani dei gruppi dell’opposizione armata, il governo siriano ha interrotto la fornitura di servizi essenziali.

Da allora, attraverso varie risoluzioni del Consiglio di sicurezza, gli aiuti sono arrivati: parliamo di acqua e cibo ma anche di alloggi, scuole, infrastrutture idriche e sanitarie. La politicizzazione della fornitura dell’assistenza transfrontaliera delle Nazioni Unite da parte della Russia ha limitato a uno il numero dei valichi accessibili e ha ridotto la durata dei rinnovi.

Nel gennaio 2023 il Consiglio di sicurezza ha prorogato l’autorizzazione per soli sei mesi, un periodo insufficiente persino per valutare i bisogni, coordinarsi con le autorità locali, fare proposte, ricevere i fondi e attuare i programmi.

Mentre scrivo, non so se il Consiglio di sicurezza rinnoverà questa forma di assistenza: i sei mesi scadono esattamente oggi. Quello che è certo è che il mancato rinnovo avrebbe un impatto devastante su una regione già devastata dai terremoti di febbraio.

Qui le sollecitazioni delle Nazioni Unite e di Amnesty International.

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