Sarebbe estremamente interessante capire chi prepara le minute delle dichiarazioni della Meloni sui temi economici. Non credo che sia tutta farina del suo sacco, come avrebbe detto il mio insegnate di italiano delle medie. Se fosse così, allora la situazione sarebbe veramente preoccupante perché la presidente del Consiglio infila una corbelleria dietro l’altra. Ci deve essere qualcuno della sua cerchia che le vuole far del male. Sarebbe opportuno che a questo punto cambiasse ghostwriter per non perdere ulteriormente la credibilità residua.

L’ultima perla della melonieconomics è l’affermazione fatta davanti al Parlamento che l’aumento del tasso di interesse operato dalla Bce produrrebbe più danni all’economia dell’aumento del tasso di inflazione. Affermazione completamente strampalata, un misto di demagogia e incompetenza. Vediamo perché.

Qui ci sono due elementi da considerare. Il primo, di minore importanza, è l’idea che i due tassi siano del tutto indipendenti. Questo è sbagliato. Il primo a muoversi è il tasso di inflazione. Il tasso di interesse segue sempre a ruota e con un certo ritardo. Prima della pandemia, il tasso di interesse praticato dalla Bce era basso, in realtà a volte nullo o anche negativo, semplicemente perché l’inflazione era assente. Non capire questa relazione significa ignorare l’abc dell’economia. Il tasso di interesse comincerà a flettere, quando l’inflazione abbasserà la testa, almeno secondo la teoria tradizionale. Fatta questa doverosa premessa, la questione toccata dalla premier è però un’altra e riguarda un po’ il conto della spesa. Ci costa di più l’inflazione, determinata secondo l’Ocse dal comportamento predatorio delle imprese, o l’aumento del tasso di interesse manovrato con poca prudenza monetaria dalla Bce? La premier non ha dubbi e si schiera dalla parte delle imprese senza scrupoli giustificandosi con il fatto che l’inflazione attuale costerebbe meno dell’aumento del costo del denaro. Facciamo un po’ i conti, molto alla buona peraltro, per capire se questo è vero.

Partiamo dall’inflazione. Un’inflazione dell’8% come quella registrata nel 2022 quali danni ha provocato? L’effetto negativo dell’aumento dei prezzi è quello di ridurre il potere di acquisto del risparmio e dei redditi in generale. A fine 2022, sui conti correnti degli italiani erano depositate somme per 1.174 miliardi. Quindi se ne sono andati in fumo ben 94 miliardi. Passiamo ora all’esame dei redditi, limitandoci per semplicità ai salari. Nel 2020 la massa salariale in Italia è stata di circa 486 miliardi. Se riprendiamo questo dato per il 2022, la perdita da inflazione ammonta a circa 39 miliardi. In soldoni, possiamo dire che l’incremento dei prezzi del 2022 è costato agli italiani e alle italiane almeno 133 miliardi, una bella somma ma è sicuramente una stima al ribasso, circa 2.200 euro a testa, infanti compresi e questo solo per un anno.

Vediamo ora di calcolare il danno provocato dall’aumento dei tassi di interesse della Bce. Qui l’effetto negativo si scarica sui debitori che vedono aumentare la rata del loro finanziamento. Questi debitori, per semplificare, sono essenzialmente le famiglie che si indebitano per comprare casa e le imprese che hanno bisogno di risorse per fare investimenti. Per fare i calcoli prendiamo il 4% come valore di riferimento del tasso di interesse praticato dalla Bce. Partiamo dalle famiglie. Il valore dei mutui ipotecari per il 2022 è stato di circa 101 miliardi di euro. Quindi in prima approssimazione il costo totale degli interessi sui mutui è salito a quattro miliardi.

Vediamo ora i mutui delle imprese. Nel 2019 l’Istat ci dice che le imprese hanno sostenuto investimenti fissi lordi per 107 miliardi. Se tutti questi investimenti fossero stati finanziati al tasso del 4%, la spesa relativa per le imprese sarebbe stata di quasi cinque miliardi. Poi c’è l’effetto negativo sui titoli di stato, qui sì molto pesante, che possiamo quantificare in 16 miliardi di maggiori spese per interessi. In totale dunque, possiamo calcolare un costo complessivo per le tasche degli italiani di 25 miliardi annui, cioè di 416 euro pro capite. In definitiva, l’inflazione costa quasi il 300% in più dell’aumento del tasso di interesse, esattamente l’opposto di quello che ci dice la retorica ministeriale. Questo, senza considerare tutti gli altri aspetti economici e sociali legati all’inflazione.

Se questi semplici calcoli dimostrano in maniera grossolana ma inequivocabile che è l’inflazione il pericolo numero uno, e non l’aumento del tasso di interesse che ne è l’effetto, da dove derivano gli strafalcioni economici della premier? Un po’ sicuramente dall’opportunismo, perché bisogna sempre, quando non si vuole agire, inventarsi un fantomatico nemico, in questo caso la Bce. Ma credo che la spiegazione sia più profonda, dato l’elevato numero di corbellerie economiche proposte in questi mesi dall’area governativa.

A destra spesso ci si fa un vanto della propria ignoranza, scarsa conoscenza e poca informazione per potersi scagliare contro i malfidenti tecnocrati in nome di una antica e onnisciente sapienza popolare. E anche la premier credo sia prigioniera di questa illusione dilettantistica che, se andava bene, per così dire, quando lei gridava a squarciagola dai banchi dell’opposizione, oggi è una sciagura, visto che la sua posizione è cambiata.

La melonieconomics non è pericolosa per la sua vicinanza ai falsi miti produttivistici del ventennio fascista che stanno tristemente tornando a galla, dalla demografia al sovranismo economico, ma per il suo elevato tasso di incompetenza assunto come elemento di valore assoluto. Poiché anche a destra ci sono teste fini, è ora che intervengano con le dovute correzioni perché è anche fastidioso dover sempre falsificare le chiacchere economiche fasulle che provengono dalle persone che ci governano e che non si dovrebbero sentire in un’aula del Parlamento.

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