La Dda di Catanzaro ha sequestrato il villaggio turistico Sayonara, uno dei complessi alberghieri della “Costa degli Dei”, a Nicotera, diventato famoso perché era il luogo dove Cosa Nostra chiese l’aiuto della ‘Ndrangheta per le stragi. È quanto emerge dall’operazione “Imperium” della Guardia di finanza che, in provincia di Vibo Valentia, giovedì mattina ha arrestato 4 persone indagate, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione, usura, trasferimento fraudolento di valori e favoreggiamento alla latitanza.

In manette sono finiti: Assunto Natale Megna, Domenico Capitò, Francesco Mancuso e Paolo Mercuri. Contestualmente le fiamme gialle hanno eseguito un decreto di sequestro beni per oltre 11 milioni di euro. Su richiesta del procuratore Nicola Gratteri e dei sostituti della Dda Antonio De Bernardo, Annamaria Frustaci e Andrea Buzzelli, i sigilli sono stati applicati anche al “Sayonara”, lo stesso locale citato più volte negli atti del processo “’Ndrangheta stragista” che, in appello a Reggio Calabria, si è concluso nei mesi scorsi con la condanna all’ergastolo del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e di Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli.

Erano gli anni novanta quando proprio al Sayonara, struttura ricettiva della cosca Mancuso, si sarebbero tenuti i summit nel corso dei quali i rappresentanti della mafia siciliana, secondo quanto hanno riferito alcuni pentiti, avrebbero proposto a quelli della ‘Ndrangheta di aderire alla “strategia stragista” voluta da Riina e dai corleonesi. Alcuni incontri si tennero lì già nel 1991 ed altri subito dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. “Per interloquire con Cosa Nostra – c’è scritto nelle carte dell’operazione Imperium – furono chiamati a partecipare tutti i capi delle varie famiglie di ‘ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria. Sulla scorta delle risultanze investigative sino ad oggi note, la posizione di Luigi Mancuso, quale esponente apicale della cosca, fu quella di non aderire apertamente alla politica stragista dei Corleonesi, per non attirare l’attenzione istituzionale”.

Una strategia raffinata che, stando a quanto emerso nel processo celebrato a Reggio Calabria contro Graviano, in realtà vide la partecipazione dei calabresi nelle stragi. In relazione a quegli anni, un capitolo del decreto di fermo è stato dedicato al ruolo del boss Luigi Mancuso detto “il Supremo” e ai suoi rapporti con Cosa nostra. Agli atti ci sono pure i verbali del pentito Andrea Mantella: ai pm il collaboratore di giustizia “riferisce che Luigi Mancuso, – riassume la Dda – evidentemente in rapporti con Cosa nostra, proprio per il suo ruolo apicale nella ‘ndrangheta, era così influente anche fuori dalla provincia di Vibo Valentia e della Calabria, che esponenti dell’ala oltranzista dell’organizzazione mafiosa siciliana avrebbero sentito la necessità di rapportarsi con lui per discutere del noto progetto stragista”.

Nel provvedimento di sequestro, la Dda ricostruisce la storia recente del Sayonara la cui proprietà immobiliare, a conclusione di una procedura fallimentare, viene rilevata dall’indagato Giuseppe Fonti. A lui, nel febbraio 2017, il Tribunale di Vibo Valentia aveva assegnato l’intera proprietà del villaggio per un milione e 473mila euro: “Le risultanze investigative – scrivono i pm – hanno evidenziato come Luigi Mancuso abbia preventivamente avallato l’aggiudicazione dell’immobile in favore del Fonti, interloquendo con l’ex proprietario ‘Tonuccio’ Ranieli (deceduto, ndr) che, nonostante la sentenza dichiarativa di fallimento, continuava ad interessarsi degli esiti dell’asta fallimentare”.

Due mesi più tardi, la gestione del Sayonara è finita in mano ad alcuni imprenditori siciliani, oggi indagati, Agatino Conti e Francesco Rapisarda, “individuati dall’arrestato Assunto Natale Megna – si legge – in esecuzione delle direttive impartite da Luigi Mancuso”. I pm guidati dal procuratore Gratteri non hanno dubbi: da un’intercettazione del 23 novembre 2017 tra il catanese Rapisarda e Giuseppe Fonti (entrambi indagati per concorso esterno), “si ha una conferma che nel 1992, a ridosso delle stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita i magistrati siciliani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, al Sayonara fu svolto un summit di mafia”.

In particolare, durante quel colloquio registrato all’interno della Mercedes di Fonti, quest’ultimo si dimostra a conoscenza di vicende pregresse riguardanti la struttura Sayonara e racconta che i vecchi proprietari, tra cui Antonio Ranieli, mettevano a disposizione la struttura nelle mani dei Mancuso. In altre parole Fonti si lamentava che, quando è entrato nell’affare del Sayonara, il villaggio turistico avrebbe dovuto ricevere un finanziamento da parte della Regione Calabria: “La pratica con la Regione è stata di sei miliardi (di lire, ndr)… due e quattro glieli hanno dati qua… tutto questo inglobamento che tu vedi… di eternit… Si, due miliardi e quattro glieli hanno dati… non gli avevano dato il resto… Dopo che cosa succede… Joppolo… per rientrare… quattrocento milioni a Gentile, a Pino Gentile (ex assessore regionale non indagato, ndr)… c’ero io quando glieli ha dati… … era una sera nel lontano novanta… novantotto… eravamo in lire… e noi siamo entrati… loro… loro… io non c’entrato niente… quindi ecco perché ero convinto che prendevo i soldi io… hai capito? Lui è entrato nel bando… ha pagato!”.

L’inghippo lo ha intuito subito Rapisarda: “Solo che poi, praticamente a lui gli è uscita l’antimafia, no?”. La conferma di Fonti è stata immediata: “Gli è uscita l’antimafia”. Ma l’imprenditore è andato oltre: “… che a me diceva che era una telefonata… di un certo… ‘Vedi che veniamo a mangiare al Beach’. ‘E c’è bisogno che mi telefoni, fai conto che è il tuo’. Invece non era un cazzo… era per quel fatto del novantadue… che io non ho mai saputo e che dopo me lo ha ammesso”. Il “fatto del novantadue” era proprio il summit in cui Cosa Nostra ha chiesto alla ‘Ndrangheta di aderire alla strategia stragista.

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