Cinema

Raffaella Carrà non è come te l’aspetti (nel documentario di Daniele Luchetti): l’abbiamo visto per voi e ve lo raccontiamo

Raffa avvince e convince proprio per il disegno vagamente inedito di quelle traiettorie del privato della showgirl bolognese che si mescolano carsicamente nel lato pubblico, sulla evocativa falsariga del wellesiano Quarto potere

di Davide Turrini

Io Pelloni prendo la Carrà e la porto via”. Raffa, il documentario fiume (tre ore) di Daniele Luchetti su Raffaella Carrà, non è affatto una lunga colata di immagini melassa celebrative. L’intenzione tutta cinematografica, affabulatrice e vincente sta nel problematizzare il personaggio, infondergli un inquieto chiaroscuro psicologico, usare l’archivio e le tante, anche troppe, testimonianze (Emanuele Crialese ma perché?) per costruire un’ossatura drammaturgica potente e incontrovertibile.

Insomma Raffa avvince e convince proprio per il disegno vagamente inedito di quelle traiettorie del privato della showgirl bolognese che si mescolano carsicamente nel lato pubblico, sulla evocativa falsariga del wellesiano Quarto potere, ponendo al centro della rappresentazione il difficilissimo rapporto con il padre (assente) e la madre (iperpresente), quindi la scelta dei propri partner (Sinatra, Boncompagni, Turchi, Japino) imbevuta di possessione e gelosia, la difficoltà di farsi “toccare” dalle persone, il tentennamento (legittimo) nel fare figli mentre la carriera s’impenna a livello internazionale, oltre al baluginante ossessivo rifugio di un proprio doppio Carrà/Pelloni sopra e fuori dal palco. Luchetti lavora sulla distribuzione e suddivisione del tempo ovvero in tre movimenti di un’ora circa. Nella prima ora si approccia alla giovinezza della Carrà in chiave riviera romagnola (simpatica l’apparizione di Gino Stacchini, giocatore della Juve, fidanzatino della Raffa balneare dell’epoca); la brusca impennata di carriera dell’assunzione ad Hollywood (Il Colonnello Von Ryan con Frank Sinatra) e il rifiuto clamoroso con ritorno a casa; i tre minuti di ballo libero richiesti durante Io, Agata e tu, il programma Rai del sabato sera con l’immenso Nino Ferrer, dove nel 1969 Raffaella esplode; l’apoteosi di Canzonissima con “la Carrà” che si fa icona popolare e bandiera nazionale, ombelico scoperto, Tuca Tuca scandaloso.

Nella seconda ora emerge una sorta di ruvida e decisa fuga dall’Italia con immensa affermazione sulla tv di Spagna, poi clamorosamente sudamericana con dei live performativi da urlo pressappoco sul finire dei settanta. Una Carrà internazionale (A far l’amore comincia tu e Rumore tradotti ovunque) che infrange sì ulteriori tabù (perfino quello nazionalista franchista spagnolo di un rumba in Fiesta che sa di tradizionalmente sacrilego) ma che crea una vicinanza corporea non proprio gradita e idilliaca tra diva e pubblico che trasforma sia l’icona Carrà che la donna Pelloni acuendone ulteriormente la doppiezza. Insomma Raffaella un po’ a pezzi, psicologicamente e per certi versi professionalmente che mette a segno l’ultimo colpo in scena: lo psichedelico Ma che sera (qui i memorabili costumi avveniristici di Luca Sabatelli) interrotto bruscamente dall’alluvione emotivo del rapimento Moro.

Ed è qui che arriva l’apoteosi di Pronto Raffaella (1984) il ritorno in Rai trainato nuovamente da una intuizione di Boncompagni che fa sedere la Raffa, non più in età da showgirl, e la incorona regina del confidenziale mezzogiorno con dei primi e primissimi piani alla Leone, salto triplo oltre la figura intera con cui aveva scandalosamente affermato la propria plastica, libertaria e ipnotica coreografia alla Hair. La terza parte, infine, recupera la Carrà che si fa corteggiare dal camion di azalee berlusconiano (anche se su Canale 5 fa flop) e la scommessa di Carramba che sorpresa, format registrato inglese che diventa profluvio di lacrime serali di successo in diretta. Come dicevamo all’inizio, è la problematizzazione della carriera e della vita della diva a basculare in continuazione in Raffa. Lo svelamento di dettagli e voci dal sen fuggite come i due chili persi ogni era dopo ogni esibizione nei tour sudamericani, l’assenza di assunzione di droghe o alcool per tenersi su, ma soprattutto il passato familiare che riemerge e tinge di indecisione anima e cuore nel quotidiano di Raffaella Pelloni. Le relazioni sentimentali che costellano la sua vita sembrano non esplodere mai in vera passione, ma in un dare/avere più ragionieristico per via di questo legame fortissimo con l’uomo di turno spostato obbligatoriamente anche sul piano professionale (da Boncompagni a Japino tutti i compagni della Carrà erano continuamente con lei a “lavorare”). Infine per almeno un paio d’ore prima che appaia Japino anziano (senza peraltro parlare) lo scheletro perpetuo e totalizzante del doc Raffa sembra essere la ritmica dell’attacco di Rumore e quel non convenzionale ritornello che spiazza e succhia tutta l’energia affettiva dello spettatore. In sala grazie a Nexo dal 6 al 12 luglio. Producono Disney+ e Fremantle.

Foto archivio storico Giovanni Liverani

Raffaella Carrà non è come te l’aspetti (nel documentario di Daniele Luchetti): l’abbiamo visto per voi e ve lo raccontiamo
Precedente
Precedente
Successivo
Successivo

I commenti a questo articolo sono attualmente chiusi.