La voglia di illudersi era talmente forte che ha finito col sovrapporre la speranza alla realtà. Fino ad assumere i contorni dell’allucinazione collettiva. Le tre finali europee raggiunte dai club italiani giusto qualche settimana fa sono state elevate a sistema, presentate come la prova che il calcio italiano non era poi così derelitto e periferico come si raccontava. Almeno fino a quando le sconfitte subite da Roma, Fiorentina e Inter non hanno fatto venire giù tutto il castello narrativo, costringendo un movimento intero a fare i conti con la verità. La grandeur degli anni Ottanta e Novanta è svanita, forse per sempre. E mentre la Premier League è diventata ogni anno più distante, gli altri tornei continentali si sono fatti sempre più vicini, fino a superare la Serie A.

Un concetto che è stato rinverdito dalle prime settimane di mercato, con i club inglesi (ma soprattutto quelli sauditi) intenti a staccare assegni e quelli italiani costretti a fare i conti con bilanci e casse vuote. Via Tonali. Via Brozovic. Via Vicario. Via Kim. E probabilmente anche Onana. Senza dimenticare quei calciatori che si sono svincolati (Dzeko, Skriniar, Di Maria) o che a fine prestito sono tornati ai loro club di appartenenza (Brahim Diaz, Lukaku). Un’opera di depauperamento che apre scenari inquietanti. Le vacche sono diventate sempre più magre, tanto che la carestia è ormai impossibile da nascondere. E pensare che appena cinque anni fa la Juventus annunciava l’arrivo di Cristiano Ronaldo, il superuomo che avrebbe dovuto portare la Champions League a Torino. Un affare da 116 milioni di euro (ingaggio escluso) che non è bastato a trasformare la Signora nella regina d’Europa, ma che sembrava poter restituire all’Italia una certa centralità nel mercato internazionale. E i successivi arrivi di De Ligt (85 milioni), Lukaku (75), Osimhen (75), Hakimi (43) e Abraham (41) parevano anche avvalorare la tesi.

Ora, però, la situazione è molto diversa. Dopo aver svincolato e venduto, i club della Serie A si stanno contendendo a colpi di pagamenti dilazionati e prestiti con obbligo di riscatto Davide Frattesi, centrocampista con un futuro luminoso davanti e con un passato prossimo da grande rivelazione del torneo tricolore. Il suo presente, però, non è ancora quello del colpo di mercato in grado di stravolgere le gerarchie: gioca nel Sassuolo, non ha mai disputato una gara in una competizione europea, ha segnato 11 reti in 72 partite di Serie A, ha raggranellato 5 presenze in Nazionale. Il suo talento è cristallino, ma deve ancora essere verificato su palcoscenici internazionali.

Le estati dei grandi tormentoni di mercato sembrano ormai svanite. Colpa anche di un divario economico con la Premier che è diventato incolmabile. La Fiorentina, che nel 2022/2023 ha investito 37 milioni di euro sul mercato, ha perso la Conference League allo scadere contro il West Ham che di milioni ne ha spesi 194, ossia 5 volte in più dei gigliati. Ma la tendenza è generalizzata. Secondo Trasfermarkt il valore delle rose dei club di Premier League si attesta sui 10.1 miliardi di euro. LaLiga, seconda in questa classifica, si ferma a quota 4.72 miliardi, quindi meno della metà. Per gli altri campionati le cose vanno ancora peggio. La Serie A non va oltre i 4.58 miliardi di euro, mentre Bundesliga e Ligue 1 (che però hanno “solo” 18 squadre) inseguono con 4.01 e 3.36 miliardi (meno del doppio della Championship, la Serie B inglese, che fa registrare un valore di 1.91 miliardi).

C’è però un altro dato che racconta piuttosto bene la crisi della Serie A. In 5 anni, infatti, le rose dei club italiani hanno perso 1.34 miliardi di valore, passando dai 5.92 miliardi del 2018 (l’anno dell’arrivo di Ronaldo, appunto) ai 4.58 di oggi. Ma le squadre dello Stivale sono costrette a inseguire più o meno in ogni settore. La Juventus è l’unico club nella top 10 (occupa l’ottavo posto) per i ricavi provenienti dallo sponsor tecnico. Ogni anno Adidas versa 51 milioni nella casse bianconere. Significa quasi 10 volte in più rispetto a quello che il marchio con le tre strisce versa alla Roma (che ha appena firmato un accordo da 5 milioni l’anno), ma anche 2.3 volte in meno rispetto a quanto riceve il Real Madrid (che domina la classifica con 120 milioni annui, seguito da Barcellona con 105 e United con 87). Anche lo sponsor sulla maglia non è poi così ricco. La prima delle italiane è ancora una volta la Juventus, che si piazza al nono posto grazie ai 45 milioni annui garantiti da Jeep. Cifre molto distanti quelle elargite al PSG (terzo in questa classifica) da Accor Hotel (60 milioni di euro l’anno), da Emirates al Real Madrid (secondo con 70 milioni a stagione) e da Etihad Airways al Manchester City (80 milioni per maglia e stadio).

Il vero moltiplicatore delle disparità, però, riguarda gli incassi derivanti dalla cessione dei diritti televisivi. Nella stagione 2021/2022, ad esempio, la Premier League ha incassato oltre 3 miliardi di euro contro i 939 milioni della Serie A. E la divisione degli introiti è spaventevole. All’Inter, prima in graduatoria, sono andati 84.2 milioni di euro. Il Norwich, ultimo nella classifica delle inglesi, ha guadagnato qualcosa come 116 milioni di euro. La differenza è agghiacciante. Soprattutto se si pensa che il City ha ricavato 187 milioni di euro, praticamente quanto Napoli (68 milioni), Roma (64) e Lazio (58) messe insieme. E le cose non sembrano certo destinate a migliorare. Lunedì è arrivato l’annuncio che la Lega Serie A non ha ancora trovato l’accordo con Dazn, Sky e Mediaset per la cessione i diritti televisivi del triennio 2024-2027 (o per il quinquennio 2024-2029): le trattative private dovranno servire per arrivare all’obiettivo minimo, non scendere sotto ai 900 milioni di euro (in questo caso però si opterebbe per un triennio), ma in caso di ulteriore fumata nera la Lega potrebbe decidere di accendere una propria piattaforma.

Una situazione fluida che rischia di diventare problematica. E che costringe il calcio italiano a fare i conti con una realtà molto più pesante del previsto. “È chiaro che l’offerta deve essere direttamente proporzionale anche all’appeal e alla qualità del prodotto che viene messo sul mercato – ha detto il presidente della Figc Gabriele Gravina al termine del Consiglio Federale dello scorso 26 giugno – Tutti pensavamo, forse ci eravamo un po’ illusi, che i risultati delle squadre italiane potessero avere avuto un appeal“. Le tre finali europee conquistate avevano illuso il calcio italiano. Il mercato e la vendita dei diritti televisivi, però, l’hanno fatto tornare con i piedi per terra. E lo hanno costretto a fare i conti con una situazione molto più cupa del previsto.

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