“Del resto mia cara, di che si stupisce, anche l’operaio vuole il figlio dottore e pensi che ambiente ne può venir fuori, non c’è più morale contessa”, cantava Paolo Pietrangeli nel 1966 nella sua Contessa. All’epoca Flavio Briatore ha solo 16 anni. I genitori, due insegnanti, lo fanno studiare poiché lo sognano avvocato ma il ragazzo fatica assai. Bocciato alle elementari verrà respinto altre due volte alle superiori e alla fine si diplomerà, da privatista, geometra. Ma, come sappiamo, la fortuna arriderà lo stesso all’uomo della provincia di Cuneo che negli anni, con un’instancabile attività di public relations, diventerà l’icona del ricco self made man. A dire il vero non proprio solo fortuna. Come si legge nelle carte di una sentenza del Tribunale di Bergamo che lo definì capo del “gruppo di Milano”, associazione che agganciava personaggi facoltosi, li ingolosiva con affari solo promessi e belle donne molto disponibili e poi li portava a giocare – e a perdere molti soldi – in case private e bische clandestine a Milano e Bergamo e casinò in Jugoslavia e in Kenya. Dettagli. Oggi per l’imprenditore i problemi sono altri come ha condiviso l’altra sera in diretta su Rai3: “L’altra settimana sono andato da un falegname e tutti i falegnami dell’officina avevano più di 50 anni, perché non avendo delle aziende che possono sopravvivere da sole. Ai figli gli fanno fare altre cose, tipo mandiamoli a scuola, mandiamoli all’università. Noi ci ritroveremo tra 20 anni senza più falegnami, senza più muratori. Non ci sarà più gente che fa i controsoffitti“.

Ora, naturalmente quella del falegname è una nobile ed antica (e spesso remunerativa) professione. Quello che non si capisce nel ragionamento del “manager” piemontese è per quale ragione a fare i falegnami o i muratori debbano essere i figli dei falegnami e dei muratori. Briatore è ad esempio padre del 12enne Nathan Falco. Se nella falegnameria le opportunità sono così brillanti perché non indirizzarlo verso questo settore? Senza contare che in tal caso il papà avrebbe anche il vantaggio trovarsi già in casa chi gli può manutenere i controsoffitti. E invece no, vige il principio delle caste, i figli dei notai fanno i notai, i figli dei laureati vanno all’università, quelli dei muratori in cantiere. Vista la biografia non si può però rimproverare a Briatore di fare troppo affidamento sulle opportunità che può offrire una buona istruzione. E nelle parole del geometra c’è almeno qualcosa di buono: un’inconsapevole sincerità. In Italia, paese con il tasso di laureati più basso d’Europa, l’ascensore sociale non esiste. O al massimo si muove verso il basso. La famiglia in cui si nasce è, salvo rarissime e meritorie eccezioni, l’elemento chiave per determinare le possibilità di carriera professionale. Di fronte a questa realtà Briatore ci risparmia almeno la retorica sulla meritocrazia che, ormai da tempo, è diventata niente più che una favola per giustificare lo status quo.

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