Il Presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, ha denunciato in una lettera al governo il consumo di suolo fertile determinato dallo sviluppo incontrollato del fotovoltaico sul suolo agricolo. Si tratta di un fenomeno preoccupante, monitorato da Italia Nostra in questi anni e certificato anche da Ispra nel suo annuale rapporto. Nel 2019 sono stati coperti con pannelli fotovoltaici 246 ettari (ha) di suolo, nel 2020 242 ha e solo 70 ha nel 2021. In totale risultano coperti da fotovoltaico 17.560 ha di terreno, per la produzione di circa 9.000 MW. La regione con più superficie occupata da impianti fotovoltaici (FV) a terra è la Puglia, con 6.123 ettari (circa il 35% di tutti gli impianti nazionali), seguita dall’Emilia-Romagna (1.872 ha) e dal Lazio (1.483 ha).

L’Ispra ci informa che “al 2021, come risultato della storia della diffusione di questa tecnologia nel nostro Paese, le installazioni di FV risultano pari al 36% circa a terra e al 64% su edificio”. L’Istituto ha calcolato che, ipotizzando di realizzare i 75 GW incrementali previsti dal Piano per la Transizione Ecologica con una ripartizione analoga ad oggi tra FV a terra e su edificio e utilizzando i coefficienti di occupazione suolo medi attuali per MW producibile, in via teorica, verrebbe occupata una superficie di circa 513 km2 (cioè 51.300 ettari) di nuovo suolo fertile.

L’Italia non riesce a produrre tutte le materie prime alimentari di cui ha bisogno, sia a causa di politiche restrittive dell’Unione Europea sia per la diminuzione dei terreni destinati all’agricoltura. Dal secondo dopoguerra ad oggi gli ettari di superficie coltivabile sono diminuiti drasticamente. L’esempio della pasta è istruttivo: il grano duro italiano copre solo il 65% del fabbisogno, occorre importare frumento duro per alimentare i pastifici. La situazione per il cibo trasformato è opposta: produciamo il 220% della pasta rispetto al fabbisogno interno.

Esaminiamo, in via solo esemplificativa, gli impatti del FV a terra su tre prodotti tipici della dieta mediterranea – grano duro, olive e pomodori. Se si considera una produzione media di grano duro di 35 quintali per ettaro, secondo questa stima dovremmo rinunciare a 1.795.500 quintali circa di prodotto alimentare, cioè al 4.5% circa annuo di grano duro. Se invece si prende l’olio di oliva come riferimento e consideriamo la produttività di un uliveto moderno intorno ai 10 quintali ad ettaro, dovremmo rinunciare a 513.000 quintali di prodotto, cioè al 1,1% all’anno di olio. Se si trasferisse poi il dato ad un altro simbolo dell’Italia in cucina come i pomodori, significherebbe dire addio ad oltre la metà delle coltivazioni nazionali, con 31 milioni di quintali di prodotto (tra quello per la trasformazione in sughi e passate e quello consumato fresco) che lascerebbero il posto ai pannelli.

Alla luce dell’analisi suddetta, seppur nella consapevolezza di un bisogno sempre crescente di energia, pare più sensato installare gli impianti FV sui tetti e non sui campi. Va ricordato, infatti, che ogni ettaro di terreno fertile con copertura vegetale assorbe circa 90 tonnellate di carbonio all’anno ed è in grado di drenare 3.750.000 litri d’acqua e, coltivandolo, può sfamare 6 persone per un anno. Il suolo è “una struttura delicata e complessa” costituita da diverse componenti che mantengono la loro funzionalità solo se tutte sono presenti e interconnesse tra loro.

Né si può dimenticare che le riduzioni di emissioni determinate dalle nuove installazioni di FV sarebbero in parte vanificate dall’aumento delle emissioni dovuto al trasporto verso l’Italia da continenti lontani delle derrate agricole non prodotte in loco. L’aumento della dipendenza dalle forniture dall’estero ridurrebbe anche l’autenticità dei prodotti di qualità della filiera alimentare italiana, oltre a dilapidare il potenziale di produzione alimentare dell’Ue e mettere a rischio la sicurezza dell’approvvigionamento alimentare a lungo termine per i cittadini europei.

La soluzione per armonizzare le esigenze di produzione di energia rinnovabile con quella alimentare è indicata nello studio di Coldiretti Giovani Impresa, che ha individuato nei tetti di stalle, cascine, magazzini, fienili, laboratori di trasformazione e strutture agricole una superficie di 155 milioni di metri quadri utili per la produzione di 28.400 Gwh di energia solare.

È urgente licenziare finalmente il documento di individuazione delle aree idonee e non idonee all’installazione degli impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili. Un documento che avrebbe dovuto essere licenziato al più tardi nel giugno del 2022 e di cui purtroppo non si vede traccia. Particolare tutela dovrà essere garantita delle aree agricole di pregio (produzioni biologiche, DOP, IGP, STG, DOC, DOCG, DE.CO.), ai paesaggi iscritti al “Registro nazionale dei paesaggi rurali di interesse storico e delle pratiche agricole e conoscenze tradizionali” e alla “Lista del Patrimonio dell’Umanità dell’Agricoltura” e alle aree agricole caratterizzate dalla presenza di paesaggi agrari identitari, di ecosistemi rurali e naturali complessi. A prescindere dalla tutela garantita dal regime previsto per le aree non idonee, si ritiene utile che non si superi con la copertura fotovoltaica a terra l’1% della superficie agricola utilizzata (SAU).

Soprattutto, i titolari degli impianti realizzati su aree agricole, che non devono superare il 10% della superficie agricola aziendale, dovrebbero essere gli imprenditori agricoli stessi e non aziende energetiche. Per quanto riguarda l’agrivoltaico, la produzione energetica dovrebbe essere al servizio delle esigenze tecniche, economiche ed ambientali dell’impresa agricola multifunzionale e non il contrario.

Italia Nostra ringrazia il Prof. Stefano Masini, di Coldiretti Ambiente, per i dati sulle produzioni agricole e le proposte inserite nel presente post, oltre a ringraziare la dott. agr. Loredana Pietroniro, di Italia Nostra Campobasso, per l’impostazione generale e i dati ambientali.

Articolo Precedente

Meno obblighi su Co2 e addio al traguardo di ridurre i gas serra, la Germania prova ad aggirare i limiti sul clima

next
Articolo Successivo

Il prezzo del cambiamento climatico lo pagano i più poveri

next