Joe Biden ha parlato della minaccia nucleare russa nel corso di un evento elettorale in California. La dislocazione di armi nucleari tattiche in Bielorussia, ha detto, è un pericolo “reale”. Per la prima volta, dalla caduta dell’Unione Sovietica, la Russia disloca ordigni di questo tipo al di fuori dei propri confini. Queste armi, è il ragionamento del presidente Usa, potrebbero essere utilizzate in modo selettivo, ma comunque altamente distruttivo, per sostenere lo sforzo militare russo in Ucraina. A parte la fondatezza o meno delle dichiarazioni di Biden, ciò che colpisce è il luogo in cui queste sono state pronunciate: un evento elettorale in California. Era già avvenuto nel passato, per esempio quando – nell’ambito di un discorso di fronte ad attivisti del partito a New York, lo scorso ottobre – Biden aveva accennato alla possibilità di un “Armageddon nucleare”. I luoghi in cui Biden sceglie di lanciare i suoi allarmi sono dunque significativi quanto gli allarmi stessi. Rivelano sfide, strategie, pericoli che la politica dell’amministrazione Biden affronta alla vigilia delle Presidenziali 2024.

Va anzitutto ricordata una cosa. L’intelligence militare americana ha sempre sostenuto che l’uso del nucleare da parte dei russi, in Ucraina, è altamente improbabile. Questo, in particolare, per due ragioni. La prima. A Mosca non conviene, da un punto di vista politico e diplomatico, usare il nucleare in Ucraina. L’uso di ordigni nucleari anche di bassa potenza causerebbe comunque migliaia di morti. Lo sdegno nei confronti della Russia sarebbe totale e globale, tale da far perdere a Mosca il parziale sostegno di Paesi come la Cina, compattando l’opinione pubblica internazionale contro l‘invasione dell’Ucraina. C’è poi un secondo elemento. Gli effetti dell’uso del nucleare potrebbero facilmente allargarsi ben oltre gli obiettivi prescelti. Le scorie nucleari potrebbero facilmente investire le truppe russe che combattono in Ucraina, ma anche entrare dentro i confini russi. Si tratterebbe di una manovra difficile da far digerire alla stessa opinione pubblica russa. Come giustificherebbe, il presidente russo, la morte di migliaia di propri compatrioti (oltre alle tante vite dei soldati già persi sul campo di battaglia)? Con che faccia Putin chiederebbe ai russi di appoggiare un’invasione che era iniziata come una passeggiata e che si concluderebbe invece con un conflitto nucleare? Sono queste le ragioni per cui l’intelligence Usa e il Pentagono hanno sempre ritenuto non realistica l’ipotesi della guerra nucleare. E per cui continuano, ancora oggi, a considerarla poco probabile. Tanto è vero che il dispiegamento di armi nucleari in Bielorussia non ha provocato un aumento dell’allerta atomica negli Stati Uniti.

Perché dunque Joe Biden continua a parlare di minaccia nucleare? Le ragioni stanno per l’appunto nella prossima campagna presidenziale, tanto è vero che gli allarmi arrivano nel mezzo di eventi elettorali e non di occasioni politiche ufficiali (dove invece Biden si è dimostrato sempre piuttosto misurato). Biden sa ormai molto bene una cosa. La speranza che la guerra in Ucraina finisca prima dell’inizio della campagna elettorale è particolarmente remota. Le elezioni si terranno il 5 novembre 2024. Com’è tradizione, la campagna elettorale entrerà nel vivo molto prima, al termine dell’estate 2023. Ciò significa che la guerra sarà ancora in corso, salvo clamorosi colpi di scena. Ci sarà dunque da sostenere le operazioni militari ucraine, in particolare la controffensiva da poco partita. Ci sarà da mandare nuove armi e nuovi finanziamenti. Ci sarà da mantenere unita una recalcitrante coalizione occidentale. Ci sarà, soprattutto, da convincere l’opinione pubblica americana che tutto ciò ha un senso, delle ragioni, delle contropartite. Uno dei modi per farlo è proprio quello di agitare lo spettro della minaccia russa – in particolare della minaccia nucleare russa – per gli equilibri globali.

“Voi ci ricordate che la libertà non ha prezzo”, disse Biden in occasione del suo viaggio a sorpresa in Ucraina, lo scorso febbraio, parlando della resistenza ucraina contro l’invasione russa. Aggiunse: “Vale la pena lottare per tutto il tempo necessario. Ed è quello che faremo. Staremo con voi per tutto il tempo necessario”. Convinto atlantista, cresciuto politicamente durante la Guerra Fredda, fautore di un’America che si fa baluardo dei valori occidentali, preoccupato per la perdita di influenza globale degli Stati Uniti, Biden sta facendo esattamente questo. Sta guidando l’America in un sostegno continuo e totale, “per tutto il tempo necessario” appunto, allo sforzo militare ucraino. Il presidente Usa non può però trascurare i sentimenti e le attitudini della sua opinione pubblica. Gli americani non hanno avuto problemi, all’inizio, ad appoggiare la politica di Biden sull’Ucraina. Putin era chiaramente percepito come colui che, con l’invasione, aveva dato inizio a una guerra efferata, il politico senza scrupoli pronto a mandare a morte migliaia di suoi giovani concittadini in nome di disegni folli e autoritari. Per mesi l’appoggio alla guerra negli Stati Uniti è stato pressoché totale, con le uniche voci critiche che non venivano dalla sinistra democratica, tradizionalmente pacifista, ma da un esiguo gruppo di repubblicani conservatori preoccupati per il fiume di dollari diretto a Kiev.

Siamo però giunti al 483esimo giorno di guerra. La fine del conflitto non è in vista. Anzi, la controffensiva ucraina è appena partita e il generale Mark Milley, chairman del Joints Chief of Staff, la massima carica militare americana, non perde occasione per dire che “la guerra sarà lunga”. Gli americani hanno intanto sostenuto una buona parte dello sforzo bellico di Kiev. Dall’inizio della guerra, amministrazione e Congresso hanno stanziato 75 miliardi di dollari tra aiuti militari, umanitari, finanziari (tanto per fare un rapido confronto: la guerra in Vietnam, nell’arco del decennio 1965-1975, costò agli Stati Uniti 92 miliardi). Il fallimento della controffensiva ucraina, o comunque il non raggiungimento dei risultati sperati, rischierebbe poi di essere molto imbarazzante anche per Washington. Come giustificare, in effetti, risultati militari così scarsi in presenza di un esborso economico americano così imponente? Ci sono poi le voci dei Repubblicani, che ormai mettono apertamente in discussione la strategia di Biden. Tanto per fare una paio di nomi: Donald Trump ha annunciato che, se fosse lui presidente, “metterebbe fine alla guerra in 24 ore” (non ha comunque detto come), mentre l’altro candidato repubblicano, Ron DeSantis, che aveva declassato la guerra a una “disputa territoriale”, spiega ora che è arrivato il momento del cessate il fuoco.

In questo contesto, dopo tutti questi mesi, senza una fine in vista, anche gli orientamenti dell’opinione pubblica sono mutati. Secondo un sondaggio del Pew Research Center, nel marzo 2022 il 7% degli americani pensava che gli Stati Uniti stessero offrendo “troppo sostegno” all’Ucraina. Nel giugno 2023, è il 28% a ritenere che gli aiuti siano eccessivi. In quel 28% ci sono molti repubblicani ma ci sono anche fette di popolo democratico che Biden non può permettersi di perdere in un’elezione presidenziale che, come quelle del recente passato, sarà decisa in molti Stati sul filo di qualche migliaio di voti. Di qui, dunque, la scelta che il presidente Usa ha assunto in occasione di qualche evento elettorale e che sarà con ogni probabilità un argomento forte della sua campagna elettorale. Quella di giustificare l’impegno americano a fianco dell’Ucraina in nome degli interessi americani, dei comuni ideali democratici con Kiev, della minaccia, anche nucleare, che la Russia porta all’Europa e al mondo.

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