di Carmelo Zaccaria

Di ritorno dagli Stati Uniti leggo che la città di Manhattan sta lentamente sprofondando sotto il suo enorme peso. Lo afferma un recente studio pubblicato su Earth’s Future. Il substrato roccioso presente nel sottosuolo, molto aderente alla superficie terrestre, ha permesso (e giustificato) una massiccia edificazione che col passare del tempo è stata sostenuta da ragioni di carattere prettamente economico, se non dalla bramosia di voler competere con grattacieli sempre più audaci e avveniristici.

Oltretutto alle tonnellate di acciaio e calcestruzzo bisogna aggiungere tutte le altre infrastrutture, metrò, macchine, asfalto, ponti, e naturalmente milioni di abitanti e turisti che sono anch’essi un ingombro notevole. La Manhattan dei grattacieli è destinata, per sopravvivere, a somigliare sempre più ad una trottola vertiginosa di luci, rumori e fetori aciduli che risalgono dai sotterranei; una grandiosa e colorata giostra impazzita dove uomini e macchine si urtano e si inseguono a vicenda. Se non fosse così perderebbe l’appellativo di essere il centro del mondo, ovvero The Crossroads of the World, cioè l’unico posto al mondo dove l’esistenza ha un valore, dove il corso del tempo sembra non dover finire mai, dove l’attualità è proiettata sempre su una rampa di lancio, dove la realtà ci vuole poco a divenire leggenda.

Il poeta Walt Whitman ne cantava le lodi a metà dell’Ottocento: “Innumerevoli strade affollate, alte escrescenze di ferro, snelle, forti, leggere, splendidamente sollevate verso cieli limpidi”. Nella costruzione arrembante di questa città ha prevalso l’indistruttibile visione della way of life americana poggiata su uno strato ben più solido del suo sottosuolo, cioè su quell’inesauribile desiderio di primeggiare, di voler sfrecciare sulle punte, di decantare ad ogni anfratto la magnificenza orgasmica del dollaro. In questo fazzoletto di terra dirompente e insaziabile di vita risuona con persistenza il motto “chi si ferma è perduto”, che diventa pretesto per ogni emarginazione, terreno fertile per ogni disuguaglianza sociale. Si è costruito in nome del progresso impenitente, di una modernità elettrizzante, ciclopica, esclusiva, laddove il passo dell’uomo, il suo odore, non si sente quasi più, sopraffatto da un modello di società sempre più artefatto e smodato, vissuto tra solitudine e burger al cetriolo.

Nel giro di poco più di due secoli è stata distrutta l’isola dalle grandi colline, chiamata “Mannahatta” dagli indiani Lenape che ne custodivano i boschi attraversati da ruscelli e da castori, rischiarati dai raggi del sole ormai inadatti a penetrare la fitta selva di palazzi. Sempre più il calore del sole viene sostituito da pungenti ondate di calore. L’opera verticale dell’uomo inizia a sgretolarsi? Certo, quella che gli scienziati chiamano aree di subsidenza, cioè la misura dell’abbassamento del suolo, coinvolge quasi più di un miliardo di persone che risiede nelle principali megalopoli del mondo. La combinazione di densificazione edilizia e innalzamento del livello del mare comporta un aumento del rischio di inondazioni e allagamenti, soprattutto nelle città costiere e fluviali, molte volte accelerate dall’estrazione di acqua, petrolio e gas dal sottosuolo.

A Shanghai è stato da tempo sospeso il drenaggio dell’acqua per evitare cedimenti del terreno già appesantito dal suo straripante carico urbano, mentre la Repubblica d’Indonesia nel 2019 è stata costretta ad approvare la costruzione di una sua nuova capitale, abbandonando Giacarta al suo destino a causa del suo sprofondamento.

Nessuna città può considerarsi immune dalle conseguenze dell’impatto ambientale. Tuttavia, tornando a Manhattan, camminandoci sopra, non si avverte l’impressione che l’esposizione al rischio di abbassamento del suolo sia percepito nella sua giusta proporzione. La modernità inquieta a volte disturba e confonde, ma pretende ogni giorno che non si possa fare a meno di tirare l’alba su Times Square.

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