L’abbiamo vista tutti, e tutti ne siamo stati colpiti, comunque la si pensi. Parliamo di quella fotografia – la sua ultima foto in vita – che ritrae Silvio Berlusconi in un bar di Milano 2, venerdì 9 giugno, poco prima del ricovero al San Raffaele che si concluderà, il lunedì successivo, con la morte.

Si è già molto discusso di questa immagine su vari piani: se fosse giusto diffonderla, di come l’uomo Berlusconi appaia, forse per la prima volta, nella fragilità, nella malattia, nella consapevolezza della fine. Del gesto finale di voler salutare la sua creatura, quella città inventata alle porte della metropoli. Del tornare bambini, da vecchi e prossimi alla fine, come simboleggia il desiderio di un ghiacciolo: hai avuto tutto, ma ora quel che conta è un ghiacciolo. E poi l’aver lasciato, proprio all’ultimo, cadere quella maschera, così determinante per tutto il suo percorso poggiato anzitutto sull’immagine vincente e seduttiva. E mille altre valutazioni, di segno opposto se la lettura è fatta da detrattori o ammiratori.

Qui, laicamente, parliamo di fotografia, e per cercare uno spunto ulteriore non possiamo che evocare una parola pesante: immortalità. Il cortocircuito sta nel fatto che – com’è noto – Berlusconi ha sempre ammesso di aspirare, in qualche modo, all’immortalità; non solo e non tanto nel ricordo del suo operato e della sua figura, ma proprio quella fisica: voleva tentare, anche con l’aiuto della scienza medica, di arrivare a vivere 120 anni. Al di là del traguardo irraggiungibile, era comunque la dichiarazione di volersi opporre al decadimento e alla morte. Sappiamo com’è andata, ed è andata come ha deciso la natura, la nostra vera sovrana.

Ma c’è qualcosa che gli umani possono fare per diventare “immortali”: farsi fotografare. Quante volte abbiamo letto e sentito, a corredo di un’immagine, frasi del tipo “Il personaggio Tal dei Tali è stato qui immortalato dal fotografo mentre… ecc.”. L’unico artificio che l’uomo ha inventato per illudersi di consegnarsi all’immortalità è la fotografia. Questo sortilegio, questa macchina del tempo che comprime in un 125esimo di secondo il passato, il presente e il futuro di un essere umano (e di qualsiasi altra cosa) è una sorta di folle delirio di onnipotenza che si scontra con la triste realtà: con una foto, in una foto, il fotografo ferma lo scorrere del tempo e rende immortale il soggetto, ma non se stesso. Ti fotografo e tu resterai giovane per sempre in quella foto, mentre io continuerò inesorabilmente a invecchiare. Non è questione da poco, prova ne sia come molti grandi fotografi hanno lavorato e lavorano su questo tema che, a volte, prende per loro i connotati di una vera ossessione.

Per districarsi in questi labirinti non si deve dunque parlarne con un fotografo, che a sua volta ci si è perso dentro, ma con chi si occupa di comunicazione, di antropologia, di filosofia. Per esempio Roland Barthes, nel suo breve ma densissimo libro La camera chiara, s’interroga su questi argomenti.

Il più grande comunicatore tra i comunicatori si chiamava Silvio Berlusconi (è un dato di fatto, non un elogio), che tutto questo ha sempre intuito, capito e usato. Ecco perciò la sua cura maniacale della propria immagine, intesa appunto come “corpo immortale” consegnato all’ammirazione nel presente come nell’eternità (per quanto eterna possa essere la storia e l’umanità su questa Terra). Se dunque nella sua ultima fotografia, fino a prova contraria, egli ha accettato consapevolmente di apparire così diverso, così fragile, così naturale, possiamo pensare che anche lui, come altri, abbia infine voluto sabotare quella grande bugia che spesso è una fotografia, sua complice in tutta l’ascesa e affermazione di uomo pubblico vincente, potente, ma non immortale.

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Foto in copertina: Silvio Berlusconi, 1993 – di Leonello Bertolucci

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