“Solo in un Paese come il nostro frodare il fisco per milioni di euro può essere considerato un reato di poco conto. In altre realtà, penso agli Stati Uniti, le conseguenze penali sono ben diverse. E chi evade non è ritenuto un furbo, ma un mariuolo di una certa importanza”. Alessandra Galli, in pensione dall’anno scorso, è una dei pochi giudici a poter dire di aver condannato Silvio Berlusconi. Di più: di avergli inflitto l’unica condanna divenuta definitiva. Bergamasca, 63 anni, primogenita di Guido – magistrato ucciso nel 1980 dai terroristi di Prima linea – Galli era la presidente del collegio della Corte d’Appello di Milano che nel maggio 2013 confermò i quattro anni di reclusione per frode fiscale all’ex premier nel processo sulla compravendita dei diritti tv Mediaset. Fu l’esito di un grado di giudizio ad altissima tensione, in cui gli avvocati Niccolò Ghedini e Piero Longo ingaggiarono una lotta corpo a corpo con il collegio per guadagnare la prescrizione a colpi di “legittimi impedimenti” elettorali e sanitari. Nello stesso tempo dall’entourage di Berlusconi partiva un’aggressiva campagna politico-mediatica contro i magistrati milanesi, culminata nel celebre “assedio” dell’11 marzo, quando i parlamentari dell’allora Popolo delle libertà occuparono in massa il Palazzo di giustizia.

Dottoressa Galli, che ricordo ha di quei mesi?

Era un contesto fuori dall’ordinario, ma ce lo aspettavamo. Si correva sul filo della prescrizione e le difese ne erano consapevoli. Sfruttando la campagna elettorale in corso per le politiche, a ogni udienza i legali di Berlusconi sollevavano impedimenti per se stessi – erano entrambi parlamentari ricandidati – o per il loro assistito. La difficoltà era cercare di applicare la legge come avremmo fatto in ogni altro caso, senza farci condizionare dal nome dall’imputato o dal clima incandescente che si era venuto a creare. A volte abbiamo concesso il rinvio, altre volte no, sulla base della documentazione presentata, cercando di tutelare il diritto all’elettorato passivo.

Ghedini e Longo chiesero di spostare il processo a Brescia per “legittimo sospetto” nei vostri confronti. Qual era il loro atteggiamento in aula?

Finché non si decideva sulle loro istanze, il clima era normale. Quando una nostra pronuncia gli dava torto, però, la reazione era di arroccamento immediato. Ricordo in particolare un’udienza in cui, dopo che rigettammo una richiesta di legittimo impedimento per Berlusconi, tutti i difensori abbandonarono l’aula, anche quelli degli altri imputati. Un comportamento davvero singolare, un modo per manifestare dissenso nei nostri confronti e anche per metterci in difficoltà, impedendoci di tenere l’udienza. Sembrava che cercassero apposta l’incidente, la risposta fuori dalle righe, che avrebbe potuto essere usata per dimostrare un nostro pregiudizio. La sfida quindi era riuscire a mantenere la serenità di giudizio – anche di fronte ad affermazioni che avrebbero potuto minarla – e non farsi prendere eccessivamente in giro.

Si riferisce alla visita fiscale che inviaste al San Raffaele quando Berlusconi tirò fuori la celebre uveite, la malattia agli occhi che gli impediva di partecipare al processo?

Personalmente io disporrei visite fiscali molto più spesso di quanto accade di solito, altrimenti i certificati medici diventano, appunto, uno strumento per prendere in giro i giudici. In quel caso l’uveite c’era davvero, ma non era un impedimento insuperabile.

Due giorni dopo i parlamentari del Pdl marciarono su Palazzo di giustizia durante il dibattimento del “Ruby uno”, che si svolgeva in contemporanea all’appello Mediaset. Anche in quel processo il collegio aveva inviato i medici.

È stata una vicenda sconcertante, credo che ogni magistrato ne sia rimasto turbato nel profondo. La definirei un’iniziativa eversiva del potere politico contro un processo regolarmente svolto in nome del popolo italiano. E invito a ricordarsi chi vi ha preso parte: tra gli altri c’era la presidente del Senato nella scorsa legislatura (Maria Elisabetta Casellati, attuale ministra delle Riforme nel governo Meloni, ndr).

Gli avvocati dell’ex premier vi accusarono di voler forzare i tempi per evitare la prescrizione.

Cercare di evitare la prescrizione è un obiettivo di tutti i processi, non solo di quelli contro Berlusconi. In questo caso, poi, fare in fretta era necessario perché in primo grado c’erano stati lunghissimi tempi morti, dovuti a leggi ad personam varate proprio dai suoi governi. Il lodo Alfano (che sospendeva i processi alle quattro più alte cariche dello Stato, ndr) bloccò le udienze per un anno, finché la Consulta non lo dichiarò incostituzionale. La legge sulle rogatorie internazionali limitò l’utilizzabilità delle prove raccolte all’estero, creando vari problemi interpretativi. All’inizio del processo d’appello tutta la frode contestata era già estinta, restavano soltanto le dichiarazioni fiscali di due annualità, 7,6 milioni sugli iniziali 368.

Di tutti e 36 i procedimenti penali aperti nei confronti del fondatore di Forza Italia, il vostro è l’unico concluso con una condanna passata in giudicato. Che conclusioni dobbiamo trarne?

Intanto è utile ricordare che in molti casi ha beneficiato di prescrizioni o di assoluzioni “perché il fatto non costituisce più reato”, come quelle per i falsi in bilancio, depenalizzati mentre erano in corso i suoi processi. In ogni caso, la condanna è arrivata per un reato grave. Non una semplice “elusione fiscale”, come hanno scritto le Camere penali (il “sindacato” degli avvocati penalisti, ndr), ma una frode ideata tramite un complesso meccanismo internazionale che esisteva dagli anni Novanta e coinvolgeva un gran numero di società offshore, per importi molto rilevanti. Negli anni in cui Berlusconi è stato al potere, d’altra parte, l’evasione è stata sdoganata: è passato il messaggio deteriore che non si tratti di qualcosa di disdicevole. Un messaggio di cui ancora oggi si trova traccia in vari provvedimenti di legge.

Nel loro comunicato di cordoglio, i penalisti scrivono anche che Berlusconi è stato “oggetto di una aggressione politico-giudiziaria senza precedenti”, e che contro di lui “l’esercizio dell’azione penale è divenuto (…) strumento privilegiato di lotta politica”.

Io non sono stata né strumento né parte di alcuna lotta politica. Sono stata soltanto un giudice, che ha applicato come meglio poteva le norme processuali e sostanziali, secondo il principio dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge. Lo stesso hanno fatto i tanti miei colleghi che si sono occupati di Berlusconi e delle sue società, la maggior parte dei quali, peraltro, del tutto estranei alle correnti. La narrazione del “complotto delle toghe rosse” per eliminare l’avversario politico è assurda.

Che giudizio dà, come cittadina, del Berlusconi uomo e politico?

È stato una figura importante della nostra storia dal punto di vista politico, imprenditoriale, sociale, del costume. Aveva obiettivi ambiziosi e riusciva spesso a concretizzarli, senza porsi il problema della correttezza del suo operato. Lo definirei uno spregiudicato, ma con una visione. L’eredità più dannosa che ha lasciato, secondo me, è la delegittimazione del ruolo della magistratura che ha messo in atto descrivendosi come un perseguitato, un modello seguito da tanti altri dopo di lui. E poi la strategia del difendersi “dal processo” anziché “nel processo”, inaugurata dai suoi legali e trasformata anche in testi di legge, che hanno reso il processo penale italiano più lento e meno efficace.

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