Racconta Emilio Fede che quando Silvio Berlusconi lo portò per la prima volta a vedere il mausoleo che si era fatto costruire nel giardino di Arcore aveva una grande preoccupazione: “Non è che qui sotto fa troppo freddo?”. È lì che Berlusconi voleva essere sepolto, in quella che definiva “la cappella gentilizia della gens berlusconiana“, neanche fosse una sorta di tomba egizia, con lui nei panni di Tutankhamon. La fece costruire nel 1990 dallo scultore Pietro Cascella, al quale disse: “Voglio un monumento funerario, ma non macabro, semmai inneggiante alla vita”. E infatti in quel mausoleo non ci sono simboli religiosi ma sfere, piramidi, figure astratte e pure una squadra massonica. Qualcuno parlò di simboli esoterici, lo scultore ha sempre smentito: quelli, disse, sono richiami alle costellazioni.

Il cerchio dell’amicizia – Non si sa se l’uomo di Arcore sarà seppellito nella sua cripta o se si dovrà “accontentare” del Monumentale. Di sicuro c’è solo che negli anni ha più volte guidato gli ospiti in surreali tour della tomba sotterranea e ad alcuni ha promesso addirittura ospitalità eterna. L’ha fatto con Fede ma pure con Indro Montanelli, che – facendo gli scongiuri – rifiutò, esclamando in latino: “Domine, non sum dignus. In pratica l’uomo di Arcore proponeva loculi con vista sul suo sarcofago come premio fedeltà. Lo spazio, in effetti, non manca: in quella cripta nel parco di villa San Martino ha fatto scolpire il “cerchio dell’amicizia“, cioè una catena di anelli, legati issolubilmente l’uno all’altro, con 36 loculi, destinati a parenti e amici più stretti. A chi erano riservati? A domanda diretta Cascella rispose: “Io faccio lo scultore, mica il becchino“. A Montanelli, invece, Berlusconi spiegò che accanto a lui avrebbero dovuto riposare Cesare Previti, Marcello Dell’Utri, Fedele Confalonieri e lo stesso Fede. I primi tre nomi, in effetti, sono sicuramente tra i suoi amici più antichi. Confalonieri lo conosce dai tempi dell’oratorio, mentre Dell’Utri e Previti lo hanno spalleggiato lungo tutta la sua carriera, dall’avventura imprenditoriale nell’edilizia allo sbarco in politica, passando per la creazione della tv commerciale.

Bracci destri e sinistri – Sarà un caso ma sia Dell’Utri che Previti, il suo braccio destro e quello sinistro, sono entrambi finiti in carcere dopo condanne passate in giudicato. Pregiudicato è anche un altro destinatario di un posto nel “cerchio dell’amicizia”, cioè Fede, che ha preso 4 anni e 7 mesi per favoreggiamento della prostituzione, anche se ha scontato la sua pena ai domiciliari. Non si tratta degli unici uomini vicini a Berlusconi coinvolti in inchieste di vario tipo. Anzi si può dire che l’intera parabola del cavaliere è costellata da personaggi destinati a finire nel mirino delle procure. Lui stesso ha affrontato 36 processi, riuscendo a essere condannato solo una volta per frode fiscale, ma evitando sempre la galera: come è noto, infatti, ha scontato la sua pena con un anno di servizi sociali, grazie all’indulto. Ad altri suoi fedelissimi è andata molto peggio. Arrestato, anche se solo per poche ore, fu il fratello Paolo: era l’11 febbraio del 1994 e il minore dei Berlusconi venne accusato di aver pagato 500 milioni di lire di tangenti al fondo Pensioni della Cariplo, che in cambio avrebbe acquistato tre edifici a Milano 3, l’ultima città satellite costruita dalla “gens berlusconiana”. Paolo ammise di aver pagato quelle mazzette e ottene i domiciliari: in seguito il processo si chiuse con la prescrizione.

Previti, l’avvocato che gli portò Arcore – Peggio andò a Cesare Previti, che passò quattro giorni in una cella di Rebibbia nel maggio del 2006, prima di ottenere i domiciliari grazie all’amico Silvio. Si erano conosciuti negli anni ’70, ai tempi dell’acquisto di villa San Martino dalla giovane marchesina Annamaria Casati Stampa, che era rimasta orfana di entrambi i genitori: il padre Camillo uccise la madre per gelosia e poi si suicidò. Annamaria era ancora minorenne e come suo tutore venne nominato Previti. L’allora giovane avvocato si occupò della vendita del castello in Brianza, con annesso parco, pinacoteca e una biblioteca con oltre diecimila volumi antichi: valeva almeno un miliardo e mezzo di lire, ma venne ceduto per appena 500 milioni a Berlusconi, che ne fece la sua dimora-simbolo. Da quel momento le sorti del rampante imprenditore meneghino e dell’ambizioso avvocato romano si saldano: Previti diventa legale della Fininvest e poi segue Silvio nella scalata a Palazzo Chigi. Berlusconi lo avrebbe voluto guardasigilli ma Oscar Luigi Scalfaro si oppose, ottenenendone il dirottamento al ministero della Difesa. Aveva ragione: nel 2006 per Previti arriva la prima condanna definitiva: sei anni per corruzione in atti giudiziari nel processo Imi-Sir, ai quali si aggiungono diciotto mesi per il lodo Mondadori. È Previti il regista della corruzione di Vittorio Metta, il giudice civile di Roma che aveva motivato la sentenza a favore di Berlusconi nella scalata al gruppo di Segrate. L’avvocato si costituisce a Rebibbia, ma esce quattro giorni dopo, quando il tribunale di Sorveglianza applica la legge ex Cirielli, che consente ai condannati ultrasettantenni di scontare una pena anche fuori dal carcere. Ecco perché quella norma era stata ribattezzata “salva Previti“, durante infuocati dibattiti parlamentari. “Il presidente Berlusconi non è psicologicamente e moralmente libero davanti a Cesare Previti”, accusò in Parlamento l’ex guardasigilli Filippo Mancuso. Secondo il quale Previti aveva fatto pervenire una missiva al suo amico presidente del consiglio. Tra le altre cose in quella lettera c’era scritto: “Simul stabunt simul cadent“. Letteralmente: insieme staranno, oppure insieme cadranno.

Il braccio destro che viene da Palermo – Preferisce scrivere in italiano, invece, Marcello Dell’Utri. “Credo in te, amico. Credo nel tuo sorriso, finestra aperta nel tuo essere. Credo nel tuo sguardo, specchio della tua onestà. Credo nella tua mano, sempre tesa per dare. Credo nel tuo abbraccio, accoglienza sincera del tuo cuore. Credo in te, amico, così, semplicemente, nell’eloquenza del silenzio … ”, è il testo di una poesia che, come ha raccontato il Fatto Quotidiano, Dell’Utri ha recentemente regalato all’amico di una vita. Tra tutti i sodali dell’uomo di Arcore, infatti, il personaggio più importante è quello che in questi giorni di lutto è praticamente scomparso dagli entusiastici racconti mediatici dell’epopea berlusconiana. Anche perché a citare troppo Dell’Utri si corre poi il rischio di doverne ricordare anche la condanna definitiva per concorso esterno a Cosa nostra: un bel problema visto che i fatti contestati all’ex senatore risalgono al periodo compreso tra il 1974 e il 1992, cioè quelli dell’ascesa imprenditoriale di Berlusconi. A parte un lustro (dal ’77 all’81) passato alle dipendenze di Filippo Alberto Rapisarda, un finanziere siciliano trapiantato a Milano che era amico di capimafia del calibro di Stefano Bontade, Dell’Utri ha trascorso la sua intera vita professionale al fianco dell’amico Silvio. Nato a Palermo nel 1941, s’imbatte nel suo futuro datore di lavoro alla fine degli anni ’50, all’università Statale di Milano, quando cercava di acquistare libri usati: a venderglieli fu Berlusconi, che si era appena laureato, essendo più vecchio di cinque anni. Questa almeno è la versione che Alberto Bianchi, vecchissimo amico dei due, ha raccontato a Fq Millennium alcuni anni fa. Dopo un’esperienza come dirigente del centro sportivo dell’Opus dei a Roma, una da presidente della Bacigalupo, squadra di calcio giovanile di Palermo, e una da dipendente di banca in Sicilia, Dell’Utri racconta di aver deciso di accettare l’offerta di Berlusconi, che gli propone di tornare a Milano per diventare suo segretario personale. Sono gli anni dell’Edilnord, delle prime speculazioni immobiliari, dell’arrivo del mafioso Vittorio Mangano ad Arcore, assunto come fattore a villa San Martino. Negli anni successivi Dell’Utri sarà a capo di Publitalia, la concessionaria pubblicitaria della Fininvest, quindi diventerà il responsabile del “progetto Botticelli“, cioè il piano segreto per scendere in politica.

Le indagini per mafia – Se Berlusconi è il padre di Forza Italia allora Dell’Utri è lo zio. O forse qualcosa di più, visto che ha curato fin dall’inizio la nascita del partito-azienda, scegliendone candidati e strategie. È il 1994, l’anno della vittoria delle elezioni e dell’inizio delle indagini per fatti di mafia: per la prima volta alcuni collaboratori di giustizia, come Salvatore Cancemi e Francesco Di Carlo, iniziano a fare i nomi di Dell’Utri e Berlusconi, che finiscono indagati per concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco. Il 7 novembre 1996 la procura di Palermo chiede il rinvio a giudizio di Dell’Utri per concorso esterno e l’archiviazione di Berlusconi. Il gip accoglie la richiesta per l’ex premier, scrivendo che “pur essendo emersi ad oggi diversi elementi che sembrano sostenere l’ipotesi accusatoria, la palese incompletezza delle indagini non consente di valutarne appieno il valore indiziario”. Questo perché i pm non hanno avuto tempo per valutare gli “elementi indiziari contenuti nell’enorme mole di materiale raccolto”. In seguito la procura iscriverà per quattro volte Berlusconi nel registro degli indagati per questo tipo di reati, chiedendo e ottenendo sempre l’archiviazione e non riuscendo mai a dimostrare che l’origine delle fortune del cavaliere sia da collegare all’arrivo di capitali mafiosi: accusa quest’ultima che sarà sempre fortemente smentita dall’uomo di Arcore. Saranno confermate, invece, le contestazioni a Dell’Utri, che nel 2014 viene condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno.

L’incontro di Silvio coi boss – Quella sentenza di condanna riguarda solo l’ex senatore, ma nelle motivazioni Berlusconi viene citato 137 volte. Dell’Utri viene condannato per aver “favorito e determinato” la “conclusione di un accordo di reciproco interesse tra i boss mafiosi, nella loro posizione rappresentativa, e l’imprenditore amico Silvio Berlusconi“. La mafia, in pratica, garantiva protezione all’inquilino di villa San Martino dove venne spedito Mangano. In cambio ai boss arrivavano centinaia di milioni di lire dal gruppo imprenditoriale berlusconiano. Era il prezzo di un “accordo di protezione stipulato nel 1974 tra gli esponenti mafiosi (Bontade e Teresi) e Silvio Berlusconi per il tramite di Dell’Utri, espressivo dell’importanza e della solidità dello stesso, dell’affidamento reciproco tra le due parti che lo avevano stipulato grazie alla mediazione dell’imputato, il quale rappresentava la persona in cui entrambe riponevano fiducia”. Quell’accordo – ha ricostruito la Cassazione – venne siglato durante un incontro, che si è svolto a Milano tra “il 16 e il 29 maggio 1974” e al quale avevano partecipato Berlusconi, Dell’Utri, il suo amico Gaetano Cinà, uomo della famiglia mafiosa di Malaspina, Stefano Bontade, il principe di Villagrazia che era al vertice di Cosa nostra, Girolamo Teresi di Santa Maria del Gesù e Francesco Di Carlo, boss di Altofonte che poi diventerà un collaboratore di giustizia. I giudici parlano anche di un altro incontro, nei primi mesi del 1980, quando Dell’Utri lavora per Rapisarda e incontra a Parigi Bontade e Teresi: ai due mafiosi chiede “20 miliardi di lire per l’acquisto di film per Canale 5“. Dopo un tortuoso iter giudiziario, nel 2014 la sentenza su Dell’Utri diventa definitiva: viene riconosciuto colpevole per fatti commessi fino al 1992. “I giudici mi fanno passare per mafioso fino al ’92, ma cadono in contraddizione: se fosse vero, la mafia non mi avrebbe mollato proprio nel ’92, quando poteva sperare nei veri vantaggi del potere, della politica”, aveva commentato l’ex senatore dopo la sentenza d’appello. Analisi assolutamente condivisibile.

Silvio il generoso – Dopo una breve latitanza in Libano per Dell’Utri si aprono le porte del carcere di Rebibbia: ci resta circa quattro anni, poi va ai domiciliari prima di tornare in libertà nel dicembre del 2019. Da quel momento, secondo l’inchiesta della procura di Firenze che ha iscritto nel registro degli indagati sia Berlusconi che Dell’Utri per le stragi del 1993, l’ex senatore ha ricominciato a bussare alla porta dell’amico Silvio. Le richieste sono le stesse da anni: a Marcello servono soldi, tanti soldi. E Berlusconi con lui è sempre stato generoso: nel 2012, per esempio, comprò la sua villa sul lago di Como pagandola 21 milioni di euro, dieci in più rispetto al valore di mercato. Nel 2021, invece, ha accordato a Dell’Utri un vitalizio da 30mila euro al mese, alla fine di una trattativa documentata dalla procura di Firenze. Secondo le indagini della Dia, Dell’Utri ha ricordato ad Alfredo Messina, il tesoriere del partito di Arcore, che “pagare i suoi difensori è pagare anche la difesa di Berlusconi e di Forza Italia, quasi a significare che, al contrario, potrebbero esserci pericoli per l’ex premier”. Era il periodo in cui l’ex senatore era ancora sotto processo per la cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra: era accusato di aver veicolato al primo governo Berlusconi la minaccia dei boss mafiosi. Durante il processo d’Appello i suoi avvocati avevano pure citato il cavaliere come testimone in aula. L’ex premier avrebbe dovuto negare di aver ricevuto messaggi minatori dall’amico Marcello. E invece Berlusconi preferì avvalersi della facoltà di non rispondere, visto che intanto era stato messo sotto inchiesta dalla procura di Firenze. Miranda Ratti, moglie di Dell’Utri, non la prese bene: “Qui c’è la vita di Marcello in gioco, è meglio che non parlo, che non dico quello che penso”. Alla fine Dell’Utri venne assolto. E dal maggio del 2021 l’amico Silvio ha acconsentito a erogargli un “vitalizio” da 30mila euro al mese. Soldi che si aggiungono ai milioni concessi negli anni precedenti. A cosa è dovuta questa generosità? “Io per lui ho creato un impero finanziario prima e uno politico poi. Anzi dovrebbe darmi di più”, disse Dell’Utri a chi scrive, ai tempi della compravendita della villa sul lago di Como. Gli inquirenti, invece, sospettano che dietro questa enorme generosità del capo di Forza Italia verso il suo storico braccio destro possa esserci una sorta di ricatto. Accuse sempre negate dai diretti interessati.

Gli altri galeotti di B – Dell’Utri e Previti non sono gli unici parlamentari di Forza Italia finiti in galera. Su questo fronte l’elenco è sterminato: si va dagli ex sottosegretari Nicola Cosentino e Antonio D’Alì, entrambi attualmente detenuti dopo le condanne definitive per concorso esterno a Camorra e Cosa nostra, all’ex governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, ai servizi sociali dopo essere stato detenuto in carcere ai domiciliari per corruzione. Nell’elenco potrebbe trovare spazio anche Denis Verdini, già coordinatore del Popolo della Libertà, prima detenuto e poi ai domiciliari dopo la condanna a sei anni e mezzo per bancarotta. Fu arrestato, invece, Aldo Brancher, dirigente Fininest accusato nel 1993 di aver pagato tangenti per 300 milioni di lire al segretario dell’allora ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, in cambio di spot sulle reti del Biscione per la campagna pubblicitaria contro l’Aids. I suoi capi, cioè Berlusconi e Confalonieri, si mettono a girare intorno al carcere di San Vittore. “Volevo far sentire a Brancher la mia presenza”, dirà Berlusconi ai giornalisti. Brancher ammette il pagamento delle mazzette ma lascia fuori i vertici Fininvest: “Ho effettuato i due versamenti non come segno di riconoscimento per l’assegnazione alla Fininvest della quota di fondi stanziati per la campagna anti-Aids, ma perché ero in contatto con il ministro De Lorenzo per la realizzazione di due progetti denominati Il male del secolo”. Che sono lavori di una sua società, non del Biscione: Brancher diventa dunque il compagno G di Forza Italia, come Primo Greganti, il tangentista che non accusò alcun esponente del Pds. In primo grado l’uomo Fininvest verrà condannato a 2 anni e 8 mesi per finanziamento illecito ai partiti e falso in bilancio. Poi, però, in Cassazione il primo reato cade per prescrizione, mentre il secondo verrà depenalizzato dal governo Berlusconi. Che anni dopo nominerà Brancher ministro per l’Attuazione del Federalismo: è il 2010 e l’ex dirigente Fininvest chiede subito il legittimo impedimento per rinviare le udienze di un altro suo processo, nato da uno stralcio del caso Antonveneta. Scoppia una furibonda polemica e Brancher è costretto a dimettersi dopo appena 17 giorni: verrà poi condannato a due anni per ricettazione a appropriazione indebita. Formigoni, Cosentino, D’Alì, Verdini, Brancher ma pure Amedeo Matacena, ex parlamentare morto da latitante a Dubai e condannato per concorso esterno: sono tutti stati compagni di viaggio di Berlusconi, personaggi che hanno condiviso con lui un pezzo di strada, soprattutto politica. Nessuno di questi, però, rientra nell’ideale “cerchio dell’amicizia” della cripta di Arcore. Una catena di anelli, legati indissolubilmente l’uno all’altro. Anche dopo anni di galera. E di silenzio.

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