Le regioni italiane meno sviluppate, ovvero tutto il Sud Italia con l’eccezione dell’Abruzzo, possono “essere considerate tutte insieme come l’area più vasta e popolosa di arretratezza economica dell’Europa occidentale”. E la politica di coesione dell’Ue non ha scalfito il divario che le separa dalle aree più ricche dell’Unione. Che la Penisola abbia speso poco e male i fondi ottenuti da Bruxelles per lo sviluppo del Mezzogiorno era cosa nota, ma ora l’Istat ha passato in rassegna le conseguenze. Il focus presentato martedì si intitola non a caso “vent’anni di mancata convergenza”: ne emerge che, nonostante la principale politica di investimento dell’Unione europea, negli ultimi vent’anni “non si è verificato il processo di convergenza” e le regioni meno sviluppate “hanno continuato a crescere sempre molto meno della media dei Paesi dell’Ue 27″.

La conclusione dell’analisi peraltro non riguarda solo il Mezzogiorno: è “l’intero sistema Paese Italia che si è contraddistinto per un processo di progressivo allontanamento dal dato medio europeo”. Nel 2000 c’erano dieci regioni italiane fra le prime 50 per pil pro capite a parità di potere d’acquisto e nessuna fra le ultime 50. Nel 2021 fra le prime 50 ne sono rimaste solo quattro (Provincia autonoma di Bolzano/Bozen, Lombardia, Provincia autonoma di Trento e Valle d’Aosta), mentre fra le ultime 50 ora se ne trovano altrettante: Puglia, Campania, Sicilia e Calabria. Il divario crescente in termini di reddito fra le regioni italiane economicamente meno avanzate e l’Ue a 27 è spiegato interamente dal tasso di occupazione, inferiore alla media Ue di ben 20 punti percentuali. Soltanto nel corso dell’ultimo ciclo di programmazione 2014-2020 è diventata determinante anche la produttività del lavoro inferiore alla media Ue27 di 9 punti percentuali.

Le previsioni per il futuro sono pessime: le tendenze demografiche, in particolare nel Mezzogiorno, “fanno presupporre che invecchiamento e spopolamento possano in futuro contribuire ad ampliare i divari in termini di reddito con il resto d’Europa”. Nel 2030 Molise, Sardegna, Calabria, Basilicata e Sicilia perderanno oltre il 10% della loro popolazione in età lavorativa, secondo le previsioni dell’Istat. “In assenza di interventi sull’occupazione e sulla produttività, la forbice con l’Ue, nel 2030, è destinata ad allargarsi pressoché ovunque in Italia e in particolare nelle regioni del Mezzogiorno”, è la previsione dell’istituto. In particolare l’Abruzzo potrebbe finire nel 2030 tra le regioni europee meno sviluppate, quelle con un Pil pro capite inferiore al 75% della media Ue. Liguria, Toscana e Piemonte finirebbero tra le regioni in transizione (che sono quelle con un Pil pro capite compreso fra il 75 e il 100% di quello europeo) e anche il Lazio sarebbe a rischio declassamento in questa categoria.

Insieme all’Italia anche le economie regionali di Grecia, Francia e Spagna sono risultate particolarmente penalizzate, colpite da “perdite di posti di lavoro, stagnazione dei salari e contrazione delle quote di mercato a causa della concorrenza a basso costo che si è vieppiù spostata in settori tecnologicamente più avanzati“. È andata in modo ben diverso nell‘Europa orientale dove “diverse regioni hanno visto crescere in modo sostenuto il proprio Pil pro capite”, convergendo con quelle che partivano da livelli di reddito più alti.

Per descrivere le aree che nel 2000 non rientravano né fra quelle a minor reddito né economicamente avanzate l’istituto di statistica parla di “trappola dello sviluppo”: queste regioni hanno visto il loro Pil pro capite a parità di potere di acquisto crescere molto meno rispetto al dato medio europeo. In quei territori vive il 72% della popolazione portoghese, il 61% della popolazione greca, il 49% della popolazione spagnola e poco meno di un terzo della popolazione italiana. Il 68% della popolazione italiana, il 71% della popolazione francese, il 67% della popolazione tedesca e oltre il 90% di quella austriaca e olandese risiedono invece in aree “economicamente mature” che hanno realizzato tassi di crescita del pil pro capite modesti ma partivano da livelli alti. Nessuna regione italiana fa parte dei gruppi delle “super star“, quelle economicamente avanzate e capaci anche di realizzare tassi di crescita del Pil pro capite a parità di potere di acquisto superiori alla media Ue, e di quelle “in convergenza“. “Interessante osservare”, commenta Istat, “come emerga da questi dati l’incapacità del modello di crescita economica mediterraneo di esprimere delle “super stars” ma forse anche delle regioni convergenti”.

L’unica possibilità di invertire la rotta? Puntare sull’occupazione, e in particolare quella femminile. Se al trend demografico previsto si accompagnasse anche un incremento dell’occupazione tale da portare le nostre regioni al tasso europeo, il livello di Pil pro capite si innalzerebbe pressoché in tutte le regioni, al punto che nel 2030, nessuna regione rientrerebbe più tra le “meno sviluppate” e si amplierebbe, la platea di quelle “in transizione”, segno di ripresa del processo di convergenza.
“L’aumento della base occupazionale e per esempio la base occupazionale femminile, che è particolarmente carente nel Mezzogiorno, potrebbe essere il driver su cui orientare tutte le risorse disponibili”, ha osservato il direttore centrale per le statistiche Ambientali e Territoriali, Sandro Cruciani.

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