Forse tutto ruota al fatto che i politici Giacomo non lo vedono. Non lo incrociano, né gli danno la mano. Ma dovrebbero, perché uno come lui non s’incontra tutti i giorni. Non solo perché è mezzo sardo e mezzo discendente da una nativa americana, ma perché a quegli incroci genetici deve una malattia rara e gravissima che lo ha reso invalido al 100%: fin da ragazzo, come Benjamin Button, è prigioniero di un’artrite che gli mangia le ossa e lo rende fragile come un anziano. Ha passato due anni d’isolamento per il Covid, torna al lavoro ma non ha più il controllo delle mani, da un macchinario di precisione passa a un videoterminale sul quale a volte s’addormenta: sono gli antidolorifici per placare il dolore. Per l’Inps è invalido al 100% ma ha ancora un 15% di abilità residua da sfruttare: ma Giacomo non lavora il 15% delle ore, né svolge il 15% delle sue mansioni. “Prendo 14 compresse e faccio le mie otto ore al giorno come tutti”. Ha un figlio di 18 anni. E’ per pagare le rette che si trascina ancora in ufficio, sapendo di avere una speranza di vita di 15 anni ancora, e – se va bene – che dopo 24 anni prenderà una pensione da 650 euro. E tuttavia, ancora spera Giacomo. Si deve a lui, a questo “uomo di cristallo” con braccialetto d’emergenza al polso, se anche in Italia si torna a parlare della “capacità lavorativa residua” degli invalidi: se Giacomo vivesse in Svizzera o in altri paesi europei la sua vita sarebbe diversa, perché raggiunto il 70% un invalido viene accompagnato decorosamente fuori dal mondo del lavoro, perché la capacità residua lavorativa pari al 30% è considerata “non sufficiente” per il mercato del lavoro. Non in Italia, dove neanche il 120% basta. E il lavoratore affetto da malattie come questa dev’esser bell’e morto.

Attorno alla sua storia è nato un piccolo movimento per i “Disabili con capacità residua” che tenta di porre alla politica questi casi e l’urgenza di intervenire su tutta la materia ribaltando un approccio vecchio di quasi 50 anni, e con un occhio alla legge delega sulla disabilità che è tra li obiettivi del Pnrr (Missione 5) ma ancora in alto mare. La legge n. 227 è stata approvata a dicembre del 2021, governo Draghi, e prevede l’impegno a riformare le procedure di accertamento delle disabilità e gli strumenti di inclusione lavorativa in attesa di riformare e attualizza la legge 68 del 1999 che ha compiuto 24 anni. C’è tempo 24 mesi per i decreti attuativi, ma solo a maggio è arrivato il primo decreto attuativi, per gli altri restano giusto sei mesi. E intanto, riesplode il caso dei fragili “dimenticati”, stavolta sugli statali, col paradosso di uno Stato che non tutela neppure chi lavora per lui.

Silvia Gazzotti, a sua volta lavoratrice fragile a causa di una malattia autoimmune, tira le fila del discorso ripartendo dalla cornice per risolvere il disordine e le storture che ci stanno dentro. “La Direttiva 2000/78/CE – spiega Gazzotti – obbliga i datori di lavoro a fornire soluzioni e accomodamenti ragionevoli ai dipendenti con disabilità, nei confronti di chi, per ragioni di salute si ritrova ad avere una capacità residua lavorativa inferiore ad un normodotato”. Ma l’Italia fa l’esatto opposto. “Il lavoratore disabile viene valutato dall’ASL che certifica la restante parte di abilità residua e da quel momento accede alle Categorie Protette secondo la legge 68”. Ma nella “repubblica fondata sul lavoro” un invalido al 70% lavora al 100%, come un normodotato, anche se l’Oms calcola un’aspettativa di vita inferiore di 20 anni. Per la maggior parte di noi questa vita più breve si consuma nella quotidiana ricerca di un compromesso al ribasso tra diritto alla salute e diritto al lavoro”.

Ed ecco la proposta: “Le aziende ogni 12 normo dotati devono assumere un invalido, cosa che raramente fanno preferendo pagare le multe anche se siamo una detrazione e non un costo. Vorremmo sollecitare il legislatore a un cambio di paradigma che parta dal dato di realtà dei malati, che anche in Italia un lavoratore disabile al 60% possa prestare il 40% della propria capacità residua, dando a lui e alla sua famiglia il giusto tempo per le cure e senza per questo perdere dignità reddituale. Come? Perché non cambiare rotta e proporre l’idea che ogni 12 il datore deve fare quota 100 % di forza lavoro, assumendo un 45% ed un 55%? Si avrebbero meno sussidi, più reddito di dignità e soprattutto meno disoccupazione”.

Questo “riallineamento”, sostiene il gruppo, garantirebbe anche l’effettivo diritto alle cure e più equità nel regime previdenziale. “Secondo la 104 abbiamo 3 giorni al mese di permesso per le cure, un tempo definito in modo generico e burocratico troppo spesso insufficiente in relazione alla patologia”. Sono poi figurativi, così come i due mesi all’anno riconosciuti dopo il 75% di invalidità. “Il risultato per i malati cronici sono pensioni molto più basse a fronte di spese mediche ingenti. A conti fatti, prenderemo meno della sociale da 468 euro o dell’assegno ordinario di inabilità da 524 che l’Inps riconosce a chi ha meno di un terzo della capacità lavorativa in modo permanente. Ma se posso curarmi mi ammalo meno, e costo meno alla sanità pubblica”. Altra stortura: “Se un normodotato si avvale della 104 per curare un parente malato per 24 mesi viene pagato lo stesso, salvo la 13esima. Ma se si ammala lui no, se chiede di prenderli per curare se stesso non glieli concedono, per cui conserva il posto ma vive di aria. E’ paradossale no?”.

Gli abboccamenti coi partiti sono in corso. “Il ministro è di Como, io di Varese, potremmo trovarci facilmente all’autogrill, le spiegherei tutto”, dice Silvia cui non difettano entusiasmo, determinazione e idealismo. Dall’ufficio stampa di Alessandra Locatelli, contattato dal Fattoquotidiano.it, non sono pervenute risposte all’invito, né disponibilità in questo senso. Un peccato, perché la proposta – da studiare, affinare etc – incontra l’interesse qualificato di chi quel mondo lo conosce nel profondo. “Quella proposta la sposerei al 100”, dice ad esempio in un’intervista al Fatto.it Vicenzo Zoccano, ex viceministro del Conte I ed ex presidente del Forum Italiano sulla Disabilità (F.I.D.). “Io sono invalido al 100% perché sono cieco, ma sto bene e lavoro. E’ chiaro che qui parliamo di una platea ristretta, quella dei lavoratori con patologie altamente invalidanti e ad alto rischio, all’interno della macro categoria degli invalidi che conta ben 7 milioni di persone. Ma sono migliaia di persone, proprio quelle che pagano il prezzo più alto a norme inadeguate. Ragionare sull’effettiva “capacità residua” dei singoli sarebbe giusto di per sé ma anche un modo per innescare nel piccolo quel grande cambio di prospettiva su tutta la materia che la politica promette da 20 ani, salvo incartarsi nella complessità dei problemi e fallire ogni volta”.

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