Silvio Berlusconi è morto a 86 anni. Per 17 anni, dal 1994 al 2011, è stato il centro indiscusso della politica italiana, pur vincendo le elezioni una volta sì e una volta no, con una strana e non casuale regolarità. Nei dodici anni successivi ha fatto di tutto per restarlo, acciaccato dall’età, dalla salute, dal fardello dei guai giudiziari e personali. Ci è riuscito in parte: la leadership del centrodestra, alla fine, se la sono presa prima Matteo Salvini e poi, più solidamente, Giorgia Meloni. Ma al centro della politica, in modo indiretto, Berlusconi lo è stato anche prima, con la rivoluzione delle tv commerciali. Le reti Mediaset, tra spot e veline, hanno contribuito a plasmare il costume nazionale, e secondo i detrattori a forgiare quel tipo di opinione pubblica poco informata e molto di pancia che sarebbe poi diventata il nocciolo duro del suo elettorato. Ma va anche detto che il politico Berlusconi fu abile a coprire la voragine lasciata dal pentapartito cancellato dopo le inchieste giudiziarie su corruzione e malaffare e a pescare a mani basse fra quegli elettori e quel personale politico in libera uscita. Vale a dire i famosi “moderati”, che via via negli anni moderati lo sono stati sempre meno, come dimostra l’ascesa di Salvini e Meloni.

Forse Silvio Berlusconi è stato il vero innovatore di una delle poche cose che non ha mai detto di voler innovare: è stato il primo dei populisti, categoria che venticinque anni dopo la “discesa in campo” mediante videocassetta da Arcore ha permeato la politica in tutto il globo. Dei leader populisti, oggi detti sovranisti, ha anticipato diverse caratteristiche. E’ stato molto amato, sì, ma anche molto detestato. Investito dal favore elettorale, sì, ma insofferente verso i meccanismi che in democrazia bilanciano i poteri. E soprattutto leader unico e indiscusso: non per niente da quando alla politica si è affacciato lui viviamo in un finto presidenzialismo in cui di fatto eleggiamo un presidente del consiglio (diciamo: “voto Berlusconi”, “voto Meloni”, “voto Renzi”…), anche se la Costituzione si ostina a dire altro. Di fronte alle gaffe e alle sparate di Donald Trump (o a quelle di Bolsonaro, di Orbán…) ci viene da pensare: “Di che vi stupite? Noi ci siamo già passati parecchio tempo fa”.

Tolto questo, a guardarsi indietro resta un senso generale di tempo perduto, di un Paese paralizzato dagli interessi e dai guai personali di un politico-imprenditore che aveva abbastanza soldi e abbastanza potere mediatico per trascinare dalla sua parlamentari, giornalisti, commentatori, pronti a tenerne alte le sorti anche di fronte a scandali e sconfitte plateali. Tutti pronti a spiegare al popolo, anche con sprezzo del ridicolo (“la nipote di Mubarak…”) che in verità quegli interessi e quei guai erano di tutti: “Mediaset dà lavoro a migliaia di persone” (quindi è giusto tenerla al riparo da qualunque norma o concorrenza); “Vedrete quando capiterà a voi che un giudice comunista vi perseguiti…” (quindi sono sacrosante le battaglie per scampare ai processi).

Erano gli anni Novanta, si innescavano rivoluzioni che avrebbero cambiato le vite di tutti noi. Nasceva internet, la globalizzazione si dispiegava con una forza senza precedenti, la Cina partiva alla conquista della manifattura mondiale, veniva legalizzato il precariato lavorativo (da un governo di centrosinistra), l’Italia faceva i conti con la sua prima massiccia immigrazione da Paesi “extracomunitari”, come si diceva allora. Questioni giganti che l’epopea berlusconiana tralasciò del tutto o ridusse a caricatura, a slogan inscatolabili nei famosi manifesti 3X6: le “tre i” (internet, inglese, impresa), oppure “spazziamo via i clandestini” (salvo ricorrere a ripetute sanatorie).

Di che cosa discutevamo, invece? Dei suoi innumerevoli guai giudiziari, innanzitutto. Per corruzione, evasione fiscale, reati societari. Persino, incredibilmente e a più riprese, per le stragi di mafia. Ma soprattutto discutevamo di quello che lui, e i tanti suoi avvocati portati in Parlamento a spese della collettività (quanto abbiamo speso noi cittadini per pagarli, potremmo chiederci ribaltando una sua celebre doglianza?) combinavano per provare a scampare dai processi (quasi sempre riuscendoci). L’effetto fu una sorta di corso collettivo di procedura penale “for dummies”. Mentre il mondo girava veloce, l’opinione pubblica cercava di decrittare il senso di termini giuridici astrusi, rimasti indisturbati per decenni nelle pieghe più polverose dei codici. E su cui ora si accalorava lo scontro politico: il “legittimo sospetto” (per poter ricusare più facilmente i giudici), la prescrizione (per poterla scampare facendo finire il procedimento prima di una possibile condanna; ancora oggi in Italia ci cadono i governi), le rogatorie (per ostacolare la richiesta di documenti all’estero da parte della magistratura), le facoltà del testimone-ma-imputato-in-procedimento-connesso (il mostruoso “impumone”, copyright del prof. Franco Cordero), le soglie del falso in bilancio (per far diventare non punibile ciò che prima lo era), il legittimo impedimento (per non presenziare a un processo e tirarla in lungo)… Riassumendo: le leggi “ad personam” (o “ad aziendam”).

Mentre il mondo continuava a girare verso il futuro, la politica italiana si arenava nell’orgia delle dichiarazioni e delle controdichiarazioni imperniate sull’esuberanza verbale del Cav. Un piccolo e non esaustivo promemoria: i “giudici doppiamente matti” e “antropologicamente diversi dalla razza umana” (2003); “Se la sinistra andasse al potere l’esito sarebbe miseria, terrore, morte” (2005); “Nella Cina di Mao i comunisti bollivano i bambini per concimare i campi” (2006); e quelli che non votano per lui sono semplicemente “coglioni”(2006)… Poi le corna alle foto di gruppo dei summit europei, il deputato Schulz definito “kapò”, Obama “abbronzato”… E via così, sempre più impresentabile – il culmine con il caso Ruby e le cene eleganti esploso nel 2010 grazie a un articolo del Fatto – e sempre più insostituibile come leader della sua parte politica.

Chiedete a Gianfranco Fini quanto potesse essere difficile scalzare un competitor che aveva dalla sua una disponibilità economica illimitata e una servitù politico-mediatica così vasta, in Parlamento, nella tv privata e pubblica, nei giornali… Che vincesse o che perdesse, per 17 anni il centrodestra italiano è stato proprietà di Silvio Berlusconi, gli aspiranti al trono sono stati via via cancellati dalla scena politica (Casini, Fini, a un certo punto persino Michela Vittoria Brambilla), fino all’avvento di Salvini e Meloni. Lo stesso Salvini è riuscito a scalare i sondaggi solo anni dopo che Berlusconi era stato espulso dal Senato – nel 2013, dopo 19 anni da parlamentare – per la legge Severino scattata (fra mille resistenze del centrodestra, che pure l’aveva approvata) in seguito alla condanna definitiva per frode fiscale al processo per i diritti Mediaset, scontata in parte con l’affidamento i servizi sociali.

Quelli che hanno conosciuto bene Silvio Berlusconi descrivono un uomo estroverso e generoso, infaticabile nel lavoro, geniale e spregiudicato negli affari e nel marketing. Chi scrive ha visto persone sciogliersi in lacrime ai suoi comizi, come davanti a un santone, e non era una messinscena mediatica. L’epopea delle “cene eleganti” ha svelato – fra testimonianze e intercettazioni, al di là dell’assoluzione penale – una sfera privata che in un momento come questo non è il caso di rievocare, tanto è tutto scritto, compresi i pubblici sfoghi della seconda moglie Veronica Lario. Quelli che hanno indagato su di lui – poliziotti, magistrati, giornalisti – hanno evidenziato l’oscura origine di parte delle sue fortune e un’ascesa favorita da rapporti con mafiosi, da aiutini e aiutoni della vituperata Prima Repubblica, dal macroscopico conflitto d’interessi, dall’evasione fiscale sistematica, da una connaturata repulsione per le norme (andate a rileggervi la storia dell’acquisizione di Villa San Martino, o dei primi passi della Edilnord). E questo indipendentemente dagli esiti – spesso tortuosi – dei singoli procedimenti giudiziari. Perché la verità storica non corrisponde alla verità giudiziaria neppure in caso di assoluzione (specie se uno viene assolto “perché il fatto non costituisce più reato”, come capitò a lui dopo che la sua maggioranza aveva modificato ad hoc il falso in bilancio).

Stupefacenti, poi, le parabole giudiziarie del suo inner circle. Tutti gli uomini del presidente, o quasi, sono finiti in tribunale e in carcere: Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Lele Mora, Emilio Fede, Valter Lavitola… E Sergio De Gregorio, protagonista della “compravendita dei senatori” realizzata nel 2008 per dare il colpo di grazia alla traballante maggioranza di centrosinistra guidata da Romano Prodi. Per quanto il regime televisivo determinato dal conflitto d’interessi sia stato per diversi anni una cappa concreta – e quelli che dicevano che la tv non sposta voti erano i primi a controllare micragnosamente qualsiasi riferimento politico nei programmi d’inchiesta come al Festival di Sanremo – resta l’impressione netta che molti degli elettori di Berlusconi avessero ben compreso tutte le sfaccettature del personaggio. E che a loro andasse bene così.

Il nome di Silvio Berlusconi è legato indissolubilmente a un’epoca, ma non a una svolta epocale, a una qualsivoglia riforma. Del fantomatico avvicinamento fra Stati Uniti e Russia, di cui a un certo punto il Cavaliere si vantò, vediamo quel che resta, nella guerra in Ucraina. Alla fine, se ci domandiamo in che cosa sia davvero cambiata con lui la vita di milioni di italiani, poche cose ci vengono in mente. Non una tangibile riduzione delle tasse e della pressione fiscale – la prima delle sue promesse – non la rivoluzione della burocrazia, non la liberalizzazione dell’economia. Resta il divieto di fumo nei locali pubblici. Una cosa si deve indubbiamente a Berlusconi: lo sdoganamento dei partiti post fascisti come possibili alleati di governo, altra tendenza globale anticipata di un bel pezzo: la vera discesa in campo fu la dichiarazione di voto per Gianfranco Fini, nel 1993 candidato del Movimento sociale italiano a sindaco di Roma. Con la vittoria di Fratelli d’Italia alle politiche del 2022 il percorso si è chiuso, gli sdoganati hanno superato lo sdoganatore.

Tolto questo, resta un po’ poco per l’uomo che prometteva il nuovo miracolo italiano e firmava contratti elettorali dalla scrivania di Bruno Vespa. Alla fine, Silvio Berlusconi ha contribuito a mantenere vecchio questo Paese. Vecchio come le barzellette che raccontava, le canzoni che cantava, la galanteria volgarotta che esibiva, l’Italia che metteva in scena – salvo alcune lodevoli eccezioni – nelle sue tv. E forse, di nuovo, a molti andava bene così.

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