“Sorprende che per velocizzare le procedure si ricorra a scorciatoie certamente meno efficienti, e foriere di rischi“, in una fase in cui “le piattaforme digitali e l’uso di procedure automatizzate consentono rilevantissime semplificazioni e notevoli risparmi di tempo, accrescendo anche trasparenza e concorrenza”. Il numero uno dell’Anticorruzione Giuseppe Busia nella relazione annuale al Parlamento torna a criticare diversi aspetti del nuovo Codice appalti scritto dal Consiglio di Stato ma modificato – in peggio – dal governo Meloni. Le “scorciatoie” sono quelle già previste come eccezioni fin dal 2020 ma rese ora la regola: “Tra queste, l’innalzamento delle soglie per gli affidamenti diretti, specie per servizi e forniture, o l’eliminazione di avvisi e bandi per i lavori fino a cinque milioni di euro”. A questo vanno aggiunte le novità volute dal ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. Che, su richiesta dell’Anci, ha tra l’altro alzato fino a 500mila euro il valore dei lavori che anche i piccoli Comuni senza personale ad hoc e competenze possono continuare ad affidare in proprio. E ha pure previsto che le unioni di Comuni siano iscritte con riserva nell’elenco delle centrali di committenza qualificate, uccidendo così sul nascere lo strumento della qualificazione indispensabile secondo Busia per aggiungere standard europei e spendere bene anche le risorse del Pnrr.

“Non possiamo più sostenere un’architettura istituzionale in cui tutte le 26.500 stazioni appaltanti registrate possano svolgere qualunque tipo di acquisto, a prescindere dalle loro capacità. Occorre una drastica riduzione del loro numero”, ha ribadito il presidente Anac. “Solo le amministrazioni in grado di utilizzare le più evolute tecnologie possono gestire le gare più complesse”. Ma “le potenzialità insite nella riforma sono state limitate innalzando a 500.000 euro la soglia oltre la quale è obbligatoria la qualificazione per l’affidamento di lavori pubblici, col risultato di escludere dal sistema di qualificazione quasi il 90% delle gare espletate“. Ridurre le stazioni appaltanti è “una necessità, non solo per rispondere all’obiettivo posto dal Pnrr, ma anche per assicurare procedure rapide, selezionare i migliori operatori e garantire maggiori risparmi nell’interesse generale”.

Il presidente Anac ha messo in guardia anche sui rischi del subappalto a cascata. “Non possiamo dimenticare che tale istituto, per poter conservare una ragione economica, quasi sempre porta con sé, in ogni passaggio da un contraente a quello successivo, una progressiva riduzione del prezzo della prestazione. E questa necessariamente si scarica o sulla minore qualità delle opere, o sulle deteriori condizioni di lavoro del personale impiegato”. Un’altra critica riguarda la mancata introduzione nel Codice degli appalti, nonostante i numerosi solleciti, dell’obbligo per gli operatori economici di dichiarare il titolare effettivo dell’impresa, rafforzandolo con adeguate sanzioni per l’omessa o la falsa dichiarazione. “Si è persa l’occasione di introdurlo nel Codice, nonostante i numerosi solleciti, rafforzandolo con adeguate sanzioni per l’omessa o la falsa dichiarazione”. L’auspicio è che il legislatore colmi presto questa carenza, “in linea con quanto richiesto dalla normativa internazionale, anche in materia di antiriciclaggio. Gli enti pubblici devono conoscere i soggetti con cui intrattengono rapporti contrattuali, al di là degli schermi societari”.

Busia ha anche confermato il sostanziale flop della disciplina sulla parità generazionale e di genere nei contratti pubblici. Quasi il 70% degli appalti del Pnrr e del Piano nazionale complementare prevedono una deroga totale alla clausola che obbliga le imprese che si aggiudicano la gara a occupare almeno il 30% di giovani under 36 e donne: ben 51.850 su un totale di 75.109 affidamenti Pnrr o Pnc censiti nella Banca dati nazionale dei contratti pubblici di Anac da luglio 2022 al 1° giugno 2023, ossia il 69,03%. Sono 1900 (il 2,53%) i bandi per cui le stazioni appaltanti hanno chiesto una deroga parziale (ovvero un abbassamento della clausola del 30%) mentre 21.229 (il 28,26%) prevedono il rispetto della quota. Nel 39,29% dei casi (23.666 affidamenti) le stazioni appaltanti non hanno specificato il motivo della deroga indicando tra le opzioni “Altro”, nel 38,8% (23.372 affidamenti) la motivazione è l’importo ridotto del contratto, nel 7,67% (4.619 affidamenti) necessità di esperienza o di particolari abilitazioni professionali, nel 6,43% dei casi (3.873 affidamenti) è la scarsa occupazione femminile nel settore, nel 3,63% (2.189 affidamenti) il mercato di riferimento, nel 3,43% (2.066 affidamenti) il numero di lavoratori inferiore a tre. Man mano che cresce l’importo dell’appalto, cresce, ma in maniera contenuta, anche il rispetto delle quote. Tra i 4.328 appalti superiori al milione di euro il 59,4% rispetta la quota del 30% di occupazione di giovani e donne, il 23,31% prevede la deroga totale, il 17,14% la deroga parziale. In generale, “i dati confermano che quasi nel 60% degli appalti sopra i 40.000 euro e nel 44% di quelli sopra i 150.000 euro, le stazioni appaltanti non hanno inserito, nei bandi, le relative clausole”, ha ricordato Busia.

Il numero uno dell’Anticorruzione ha rimesso nel mirino anche il dl sul ponte dello Stretto: “Rileviamo uno squilibrio nel rapporto tra il concedente pubblico e la parte privata, a danno del pubblico, sul quale finisce per essere trasferita la maggior parte dei rischi“. Sul decreto che si basa su un progetto elaborato oltre dieci anni fa,l’Anac ha proposto alcuni interventi emendativi per “rafforzare le garanzie della parte pubblica, non accolti, tuttavia, dal Governo in sede di conversione del decreto”.

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