di Mikhail Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia

Con il decreto Lavoro il governo Meloni non solo ha voltato le spalle a politiche di contrasto alla povertà all’insegna dell’universalismo selettivo, ma ha messo in campo norme che, invece di arginare, rischiano di acuire ulteriormente la perdurante crisi del lavoro nel nostro Paese.

Forti precarietà, discontinuità e saltuarietà lavorativa, stagnazione salariale di lungo corso, ampie e crescenti disuguaglianze, vecchie e nuove forme di sfruttamento, un valore sociale scarsamente riconosciuto: sono queste, e da tempo, le caratteristiche strutturali del mercato del lavoro italiano. Un lavoro che non basta oggi, per troppi, a condurre un’esistenza libera e dignitosa, a soddisfare i bisogni del proprio nucleo familiare e a garantirsi prospettive di un futuro di benessere. Ben un lavoratore su 8 vive in una famiglia con reddito disponibile insufficiente ai propri fabbisogni di base. Quasi un terzo dei dipendenti nel settore privato è a basso salario con l’incidenza più elevata per gli occupati in regime di part time, tra i giovani e la forza lavoro femminile.

Politiche di flessibilizzazione tra le cause della diffusione del lavoro povero

I fattori che hanno concorso al diffondersi del lavoro povero in Italia sono molteplici. Un ruolo non trascurabile è ascrivibile alle politiche di flessibilizzazione degli ultimi 25 anni, che hanno portato a una moltiplicazione delle tipologie contrattuali atipiche e a una progressiva riduzione dei vincoli per i datori di lavoro ad assumere con contratti a termine. Come risultato si è arrivati a una pronunciata dualizzazione del mercato del lavoro, che vede oggi contrapporsi a un segmento di lavoratori più protetto – con maggiore stabilità delle relazioni contrattuali, salari più elevati, possibilità di accesso alla formazione continua e agli ammortizzatori sociali – una componente crescente di lavoratori con prospettive peggiori in termini di stabilità lavorativa, retribuzione, trattamento pensionistico, accesso al credito e alla formazione.

Rendere più stringente e oneroso il ricorso al lavoro a termine sembrerebbe allora un passo necessario per contrastare l’intrappolamento di tanti lavoratori nella condizione di precarietà. Non è tuttavia questa la strada maestra intrapresa dal governo Meloni, la cui visione è invece perfettamente in linea con il passato, orientata ad assicurare ai datori di lavoro maggiore flessibilità nell’impiego dei lavoratori.

L’ulteriore liberalizzazione del lavoro a termine

Con il Decreto Lavoro si riallentano così i vincoli per il ricorso ai contratti a tempo determinato nel settore privato. Un risultato assicurato dal “rilassamento” delle stringenti causali con cui si motivano le ragioni oggettive, che dovrebbero rappresentare una “eccezione”, per le assunzioni temporanee tra 12 e 24 mesi di durata. D’ora in avanti tali contratti potranno essere stipulati per la sostituzione di altri lavoratori o con causali previste dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. In assenza di simili previsioni nei contratti collettivi, nei prossimi 11 mesi avranno valenza “specifiche esigenze di natura tecnica, organizzative o produttiva” non compiutamente definite, individuate direttamente – in condizione di forte asimmetria di potere contrattuale e con un discutibile ruolo dei certificatori privati abilitati – tra lavoratore e datore di lavoro.

Nella propria azione emendativa i partiti della maggioranza si sono spinti anche oltre. Se oggi l’attivazione di larga parte di rapporti di lavoro subordinato non a tempo determinato prevede un contributo addizionale, a carico del datore di lavoro, un emendamento di Forza Italia chiede l’eliminazione di tale onere. Una filosofia non condivisa, con merito, dai senatori del Pd che difendono l’onerosità dei contratti a termine e anzi propongono di inasprire il contributo addizionale per contratti dalla durata inferiore a uno o tre mesi.

A tutto voucher

Nel solco delle disposizioni dell’ultima legge di bilancio, il Decreto amplia anche il ricorso al contratto di prestazioni occasionali, pagate in voucher, nel settore turistico e termale. In deroga alla disciplina generale, le imprese in questo settore potranno ricorrere a prestazioni occasionali fino all’importo di 15.000 euro nei confronti di tutti i lavoratori (contro i 10.000 negli altri settori). Sale contestualmente anche la soglia dimensionale per le imprese del settore che possono far ricorso ai voucher.

L’intervento promuove una maggiore liberalizzazione per le prestazioni occasionali senza alcuna discussione, circa il livello di accettabilità della domanda di lavoro discontinuo. Senza, in particolare, volersi interrogare su quanto le esigenze organizzative e produttive delle imprese si contemperino con quelle dei lavoratori di ottenere certezza retributiva e di protezione e senza porsi il problema del potenziale effetto sostitutivo e destrutturante dei voucher rispetto al lavoro ordinario.

Le forze di maggioranza in Parlamento non appaiono soddisfatte e chiedono di estendere l’intervento ad altri settori come quello sciistico o alberghiero – contraddistinto da un’alta incidenza di lavoro irregolare – o ai servizi di stewarding. Le opposizioni unite, ad eccezione di Azione-Italia Viva, esortano a un passo indietro.

Un decreto che preserva (ed aggrava) lo status quo

In definitiva, piuttosto che rendere più oneroso il ricorso al lavoro a termine, limitare il lavoro occasionale, ridurre le forme contrattuali atipiche, contrastare il dumping contrattuale e introdurre un salario minimo legale, il governo ha ulteriormente liberalizzato il lavoro non standard, con il rischio di ampliare la povertà lavorativa e le file dei working poor. Riservando un trattamento da merce usa e getta a quel lavoro che costituirebbe, da dettato costituzionale, il pilastro fondativo del nostro patto di cittadinanza e la base per la dignità e libertà dell’individuo.

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