“Sono figlio di due insegnanti di scuola elementare, la figura del maestro mi sta a cuore. Nella pallacanestro servirebbero più maestri e meno allenatori, non solo nei settori giovanili”. Stefano “Pino” Sacripanti nasce nel 1970 nella città cestistica di Cantù, dove inizia ad allenare le formazioni giovanili già da adolescente. Nel 2000 diventa capo allenatore e due anni dopo viene eletto miglior coach della Serie A. Nel 2003 vince la Supercoppa italiana. È stato per parecchie stagioni head coach della Nazionale Under 20, con un’esperienza da vice di Ettore Messina in quella maggiore. Dopo aver allenato anche Pesaro, Caserta, Avellino, Bologna e Napoli, dal 2023 è a Scafati in A1, club che ha appena portato alla salvezza. “Papà Luigi, che non c’è più dal 2020, aveva conosciuto mamma Manuela proprio nella scuola in via De Gasperi a Cantù. Si sono sposati e siamo nati io e mio fratello Sergio, che tra l’altro ha frequentato proprio le elementari dove lavoravano i miei”.

Erano anche loro appassionati di pallacanestro?
“Papà lo era. Si dava molto da fare insieme ad Arnaldo Taurisano, che era il professionista vero dei due, nel basket femminile e in quello giovanile”.

Cosa le hanno trasmesso?
“Il desiderio di insegnare e di fare formazione. Insegnare non è solo impartire nozioni, ma accompagnare gli alunni passo dopo passo, con il ragazzo che deve essere protagonista delle proprie azioni. L’apprendimento significa essere partecipi in quello che fai”.

La scuola più importante che ha avuto?
“La Pallacanestro Cantù della famiglia Allievi. I miei maestri sono stati istruttori come Erasmo Nocco, Fabrizio Frates, Gianni Lambruschi, Massimo Canali. Una scuola che metteva lo sport prima del risultato e quindi: rispetto delle regole, rispetto per gli altri, rispetto degli avversari e del luogo in cui ci si allena”.

Lei come diventa allenatore?
“Già a 16 anni cercando di dare ai giovani il timbro della Pallacanestro Cantù. Frates e Lambruschi mi prendono da parte e mi dicono: tu capisci di pallacanestro, ma non hai i mezzi fisici per proseguire come giocatore. A malincuore detti loro ragione, ma accettai comunque con gioia quella che era l’unica possibilità per andare avanti con questo sport meraviglioso”.

Cosa insegnavi a dei ragazzi poco più giovani di te?
“Le regole della Pallacanestro Cantù. Il lavoro e la meritocrazia sul campo. Il basket è un gioco, ma va fatto con serietà non con superficialità”.

Il settore giovanile rimane una sua passione, nonostante i molti anni di prima squadra?
“Sì, i dodici anni in Nazionale sono stati stupendi. Consegnare i ragazzi al professionista, mostrando loro la passione per la pallacanestro, è bellissimo. Non avrei tempo oggi per lavorare nei settori giovanili, ma in estate vado a vedere i ragazzi e faccio camping di specializzazione”.

I giocatori possono apprendere anche da adulti?
“Certamente, anche se sei un ex Nba”.

Ron Artest arrivò nel 2015 a Cantù, con i Lakers aveva già vinto un titolo.
“Un professionista assoluto, maniacale nella cura del proprio corpo e durante gli allenamenti. Mi avevano detto che sarebbe stato difficile da gestire, eppure con me è stato fantastico. Un onore averlo allenato, per me è stato un arricchimento. Gli allenatori possono apprendere dai giocatori dal punto di vista cestistico: un nuovo approccio mentale o un nuovo movimento. La loro fantasia spesso supera la nostra mentalità o le nostre nozioni”.

Altri uomini da cui ha imparato?
“Marzorati: giocava, studiava il gioco e faceva il capopopolo a Cantù. Antonello Riva per la dedizione e la cura dei particolari. Al di là dell’amicizia, Frates mi ha impartito i primi fondamentali, Mario De Sisti è stato un genio nelle Nazionali giovanili, anche per la capacità di saper rischiare. Tutta la mia generazione deve qualcosa a Ettore Messina. Carlo Recalcati un punto di riferimento nella gestione dei giocatori: l’uomo arriva prima delle regole e non va tolto al giocatore quello che gli viene spontaneo”

Come se la passa il basket italiano oggi?
“Fatica un po’ anche per problemi economici generali. Va capito che la ricchezza è nei settori giovanili, tutto nasce qui: giocatori, arbitri, dirigenti, appassionati. Ma serve un impegno congiunto dei club, della Federazione e della Lega”.

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