Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“Devo tutto alla bici, ma il ciclismo oggi non mi manca perché faccio fatica a capire tutta questa tecnologia. Al massimo vado a vedere le corse dei ragazzini”. Conclusa la carriera da corridore, Davide Boifava (classe 1946) inizia a 33 anni a fare il direttore sportivo. Negli anni Ottanta ha portato alla vittoria Giovanni Battaglin di un Giro d’Italia e di una Vuelta a España, Stephen Roche di Giro e Tour de France e Roberto Visentini di un Giro. La sua avventura in ammiraglia è stata molto lunga, facendo esordire tra i professionisti anche giovani come Marco Pantani e Ivan Basso. Oggi aiuta il figlio nella fabbrica di biciclette a Ponte San Marco, provincia di Brescia. Il ciclismo professionista lo segue solo dal divano di casa. “Ai miei tempi il ds seguiva la preparazione dei corridori, programmava le corse a inizio stagione, controllava l’alimentazione. Oggi è cambiato tutto con la presenza dei nutrizionisti, dei preparatori atletici, dello psicologo, del mental coach, del procuratore. Allora era un ciclismo pane e salame, in cui contava la sensibilità del corridore, adesso sembra la Formula 1!”.

Come è iniziata la sua carriera?
“Da dilettante ho indossato la maglia gialla al Tour de l’Avenir, sono passato professionista nel 1969 e qualche corsa l’ho subito vinta, ma il secondo anno dopo una caduta in corsa mi sono rotto i tendini ed è iniziata la mia personale odissea. Operato quattro volte, sono ritornato alle gare, partecipando anche ai Mondiali, quelli della vittoria di Basso, ma non ero più il ciclista di una volta. Poi nel 1979 è arrivata la chiamata di un grande imprenditore”.

Chi era dall’altra parte della cornetta?
“Angelo Prandelli della Inoxpran voleva farmi correre, ma gli dissi di no. Allora mi chiese di fare il ds. Non so cosa vide in me, forse che avevo tanto entusiasmo. Sono stato fortunato a incontrarlo”.

Chi fu il primo corridore che contattò?
“Giovanni Battaglin, solo cinque anni meno di me. Anche in gruppo c’era sempre stato un bel feeling. Se fai la squadra, vengo con te. Due anni dopo fece con me la doppietta Giro-Vuelta. Siamo ancora grandi amici, questa è la cosa più bella”.

Cosa pensa di aver dato a Battaglin?
“Quando il corridore fa fatica, è fragile: il ds deve saper dar sicurezza”.

Con chi altri ha avuto un rapporto privilegiato?
“Con Roche, Visentini, Bontempi, Ghirotto, Chiappucci… Ho sempre avuto un bel rapporto con tutti”

Con Visentini è stato più complicato?
“Lui diceva sempre che non sapeva nemmeno lui perché corresse, ma la sua classe era immensa. Ha fatto metà di quello che poteva fare, per esempio non gli piaceva andare in Francia. Una volta ha segato a pezzi la sua bici, ma poi è venuto a riprenderne un’altra. Ripeto: classe cristallina. Con la testa di Chiappucci avrebbe vinto tre tour e tre giri”.

Il rapporto Visentini-Roche?
“La Carrera faceva i tre giri e le classiche in Belgio, serviva avere una squadra forte. A inizio stagione studiavamo il calendario e non li mettevamo mai assieme”.

A Sappada 87 però erano insieme, cosa successe?
“Dopo quasi quarant’anni se ne parla ancora… Roberto era in maglia rosa, lui era un bravo discesista ma quel giorno stava in coda al gruppo, non era in giornata. Rischiavamo di perdere il giro. Breukink e la Panasonic attaccavano, ma grazie all’intelligenza di Roche abbiamo portato a casa il giro. Roche vinse la corsa a tappe e Roberto si arrabbiò”.

Un buon ds come si comporta quando ha in squadra un campione?
“Bisogna lasciarlo libero di interpretare la gara con la sua fantasia. Non va telecomandato. Il campione è il ciclista, non il ds!”

Qualche anno dopo arrivò nella sua squadra Marco Pantani.
“Quando Marco vinse il Giro dei dilettanti, lo chiamai. Chissà quante proposte avrai ora per passare professionista, gli chiesi. Lui mi rispose che era stato lui a chiamarmi per primo e che avrebbe mantenuto la parola data. Era l’agosto del 1992, quando venne alla Carrera, aveva 22 anni e aveva dimostrato grandi cose nelle stagioni da dilettante. Era maturo, non come adesso che va tutto più veloce e i giovani del vivaio World Tour si pensano già professionisti. Ma per correre bene l’atleta deve essere maturo, oggi i fenomeni sono pochi, in Italia purtroppo zero, dopo Nibali”.

Filippo Ganna non lo è?
“È uno specialista. Io parlo di campioni per i giri”.

Nel 2003 torna alla Mercatone Uno.
“Sì, con Marco, l’ho avuto all’inizio e alla fine della sua carriera. Marco mi ha chiamò per dirmi che se avessi firmato, lo avrebbe fatto anche lui. Era un ragazzo eccezionale, con un grande rispetto per le persone. Purtroppo è caduto in un vortice spaventoso più grande di lui. Le colpe sono sue e degli amici che non lo erano. Amici di convenienza, che è diverso. È una storia che mi fa soffrire. Marco era rimasto uguale, un innamorato della bici, un uomo molto intelligente. Quando si fidava della persona, dava tutto. Sono riuscito a parlarci al telefono fino agli ultimi giorni. Quanta amarezza per non essere riuscito a fare di più. Non avrei mai pensato finisse così”.

Chi considera il suo maestro?
“Giorgio Albani. Ero dilettante in quello che era considerato il vivaio della Molteni, di cui lui era direttore sportivo. Da lui ho imparato tutto. Di dialogare con i corridori, senza imporre nulla. Obbligare non è mai servito a nessuno perché se trovi un atleta con carattere non ti ascolta. Quando Prandelli mi contattò dissi che avrei voluto avere lui al mio fianco in ammiraglia e così lavorai per alcuni anni insieme al mio maestro”.

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