di Roberto Iannuzzi *

Nel quotidiano rincorrersi di crisi e conflitti dell’attualità internazionale, alcuni mutamenti epocali, meno appariscenti ma più profondi, possono talvolta passare sotto silenzio.
E’ il caso di un cambiamento di rotta storico che sta compiendo la Casa Bianca, segnalato da due importanti discorsi pronunciati a fine aprile dal segretario al Tesoro Janet Yellen e dal Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan.

Il nocciolo di tali discorsi, passati relativamente inosservati, ruota attorno all’esigenza dell’establishment Usa di incolpare un attore esterno (la Cina in questo caso) per i mali che affliggono l’economia americana, essendo questi ultimi invece frutto di decenni di scelte fallimentari compiute dalle varie amministrazioni che si sono succedute alla Casa Bianca.
Quando afferma che le “pratiche economiche sleali” di Pechino si sono tradotte nell’eccessiva concentrazione della produzione di beni essenziali in Cina, danneggiando lavoratori e imprese negli Usa e nel mondo, la Yellen dimentica che la delocalizzazione dell’industria americana in territorio cinese fu dovuta all’avidità delle élite statunitensi, le quali ricavarono enormi profitti da questo processo.

Processo che invece fu avversato da lavoratori e sindacati negli Stati Uniti, ma naturalmente senza esito. Tacendo questo fatto, la Yellen ha affermato che l’amministrazione Biden è ora pronta a pagare un prezzo economico per “proteggere gli interessi di sicurezza nazionale” dalla minaccia cinese. Per mantenere la propria preminenza globale, Washington intende vincere la competizione con la Cina e isolare Pechino, come si deduce dalla Strategia di sicurezza nazionale messa a punto dall’amministrazione lo scorso ottobre.

A tal fine, da diversi anni varie amministrazioni Usa hanno adottato provvedimenti come: aumentare gli investimenti nei settori strategici in patria, proibire l’esportazione in Cina dei semiconduttori tecnologicamente più avanzati e dei macchinari per realizzarli, vietare le transazioni con circa 600 compagnie cinesi (ufficialmente a causa dei loro rapporti con l’esercito cinese, o per questioni legate ai diritti umani), spingere gli alleati a ridurre i propri legami economici con Pechino.

Dopo aver sostenuto che le previsioni sul declino degli Usa si sono sempre dimostrate sbagliate, e che anche stavolta Washington sarà all’altezza della sfida, la Yellen ha voluto pronunciare parole rassicuranti affermando che i provvedimenti sopra citati non sono finalizzati ad ottenere un vantaggio competitivo su Pechino o a soffocare la modernizzazione della Cina. Ed ha anche aggiunto che gli Stati Uniti non cercano un totale disaccoppiamento (decoupling) dall’economia cinese, che sarebbe “disastroso per entrambi i paesi” e avrebbe effetti destabilizzanti “per il resto del mondo”.

Sullivan ha ulteriormente chiarito il discorso della Yellen prendendo a prestito l’espressione cara alla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, secondo cui l’Occidente non punta a un decoupling con la Cina, quanto a un “de-risking”, ovvero a una riduzione dei rischi derivanti da una sovraesposizione delle catene di fornitura occidentali alla Cina.

La decisione americana di colpire la principale compagnia cinese di telecomunicazioni (Huawei), e di vietare l’esportazione in Cina dell’intera fascia dei semiconduttori più avanzati, tradisce tuttavia l’intenzione di muovere una guerra economica a tutto campo, piuttosto che ingaggiare una mera competizione di mercato con Pechino. Nel suo discorso, eloquentemente intitolato “Rinnovare la leadership economica americana”, Sullivan si è però spinto ancora più in là, mettendo in discussione i fondamenti stessi della globalizzazione promossa dagli Usa negli ultimi trent’anni.

Ancora una volta senza individuarne le cause in precise scelte politiche statunitensi, egli ha lamentato la crisi che ha “lasciato indietro molti lavoratori americani”, e ha denunciato l’eccessiva dipendenza dai mercati mondiali che avrebbe mostrato i suoi lati negativi in occasione della pandemia e della guerra in Ucraina.

Sullivan è il principale promotore di una “politica estera per la classe media”, un vago slogan da tempo propagandato dall’amministrazione Biden, in base al quale gli interessi americani all’estero dovrebbero supportare le strategie volte a rivitalizzare l’economia e la società americana in patria. Partendo da questo presupposto, egli ha affermato che i mercati non sempre distribuiscono il capitale in maniera socialmente ottimale, che le liberalizzazioni non dovrebbero essere perseguite in maniera fine a se stessa, che privilegiare la finanza rispetto all’economia reale è stato un errore.

Esponendo tesi in parte certamente condivisibili, Sullivan ha smantellato il dogma neoliberista imperante a Washington, fondato su riduzione della spesa pubblica, privatizzazioni, deregolamentazione, apertura ai capitali stranieri – il cosiddetto “Washington Consensus”, secondo un’espressione coniata nel 1989. Non c’è tuttavia da attendersi una sorta di “riscoperta del socialismo” da parte dell’amministrazione Biden, o l’enunciazione di una nuova visione universale, ma qualcosa di ben più ristretto: la formulazione di una strategia utilitarista volta a cercare di preservare il primato statunitense.

Siamo di fronte al tentativo di individuare misure che prevengano la disgregazione della società americana in patria, e del sistema di alleanze su cui si fonda il blocco occidentale al livello internazionale. Sul successo di un simile tentativo si possono avanzare molti dubbi, visto che l’introduzione di dazi e sussidi va a scapito degli alleati, e che non si affronta lo squilibrio fra capitale e lavoro in patria.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
Twitter: @riannuzziGPC
https://robertoiannuzzi.substack.com/

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