di Paolo Bartolini, analista biografico a orientamento filosofico, saggista e poeta, e Sara Gandini

Mentre nel nostro Paese quasi l’intero arco parlamentare persegue una strana idea di pace, capita di sentire alcuni protagonisti della gestione dell’emergenza pandemica che sottolineano l’urgenza di una pacificazione sociale ormai irrimandabile. Ci si riferisce, evidentemente, all’auspicata (da costoro) stretta di mano che dovrebbe esserci tra gli italiani divisi dalle politiche discriminatorie messe in opera, soprattutto ma non solo, dal governo Draghi.

Quello che i decisori politici e i primi azionisti della comunicazione mainstream faticano a capire – ed è il motivo per il quale riteniamo che non debba scendere una cortina di silenzio sugli eventi del periodo 2020-2022 – è che la spaccatura prodotta nel corpo sociale ha generato un vero e proprio trauma collettivo. Nel caso dei cittadini che hanno perso lavoro, reddito e diritti per il fatto di non acconsentire a un trattamento sanitario ‘imposto’ dalle autorità (laddove il famoso lasciapassare verde è stato, evidentemente, uno strumento indiretto per costringere alla vaccinazione), l’ingiustizia patita e il disagio che ne proviene si arricchiscono di motivi di orgoglio. Ma pensiamo anche alla fatica emotiva che tanti giovani stanno vivendo, con un incremento significativo delle patologie psichiatriche.

Se i giovani, colpevolizzati e isolati, hanno interiorizzato il malessere, le madri prima di tutto, ma in generale le famiglie, sanno l’effetto che le misure di prevenzione, il distanziamento sociale e il prolungato periodo davanti ad uno schermo hanno provocato sui figli. Con una tardiva assunzione di responsabilità le istituzioni devono farsi carico dell’enorme disagio psichico causato a intere generazioni per via di politiche miopi e troppo sbilanciate. Non aiuta di certo, per favorire un dialogo tra parti incomunicanti, aver incluso a forza nel generico calderone “no-vax” milioni di persone con le opinioni più disparate, al fine di riversare sul nemico del momento (creato ad arte) le tensioni altrimenti soverchianti connesse al fallimento del modello neoliberista nella tutela della salute pubblica. La solita logica del capro espiatorio ha avuto l’effetto di esacerbare le opposizioni di principio, impoverendo il dibattito e andando a ledere le fondamenta dello stato di diritto.

La pacificazione, per come la pensano i semplificatori seriali del nostro tempo, non potrà esserci e non ci sarà. Quello che invece sarebbe un segnale fondamentale, e curativo (se pensiamo al trauma sopra ricordato e al vulnus inflitto alla democrazia italiana), è promuovere nel nostro Paese la ricomposizione della dissociazione emotiva e cognitiva che ha accompagnato gli anni della crisi pandemica. Da poco l’OMS ha dichiarato terminata la fase “acuta” del Covid-19. Dovremo convivere con questo agente patogeno, per fortuna indebolito e meno letale anche per le fasce della popolazione più a rischio. Ciò con cui, invece, è impossibile convivere, è l’idea di un colpo di spugna che cancelli quanto accaduto. Una comunità che non sappia tornare sui conflitti mai elaborati, per riconoscerli e trasformarli, è destinata a soffocare sotto il peso delle sue reticenze.

Se questo tema non va lasciato alle nostre spalle, è perché la “normalità” che il neoliberismo ci propone è quella di una vita smemorata, incapace di imparare dalle esperienze, afflitta dalle angosce del momento e incline drammaticamente a ripetere le nefandezze trascorse. Invece di auspicare ireniche pacificazioni che scongiurino la sfiducia crescente di molti verso gli ordini che arrivano dall’alto, è tempo di interrogare il disagio diffuso, le sue domande di cura, la sfida al “pensiero unico” che si sta alzando un po’ ovunque ma ancora non può contare su un adeguato progetto culturale e politico.

Fare questo non significa affatto precipitare nelle tenebre dell’irrazionalismo. Al contrario: vuol dire riconfigurare la nostra esperienza della ragione critica, renderla permeabile al sentimento diffuso nella popolazione. Si tratta, in altre parole, di prenderci cura del danno subìto e inflitto, di dare voce ai racconti di chi l’ha vissuto nella carne, di ammettere gli sbagli laddove sono stati fatti e testardamente negati. Una riconciliazione possibile, e graduale, passa solo dal pieno riconoscimento delle ragioni e dei vissuti dell’altro, non dalla rimozione metodica che genera pericolosi fantasmi di purezza.

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