Alla fine il romanzo non è riuscito a trasformarsi in un capolavoro. Colpa di un finale poco lieto e molto amaro, a tratti surreale, sicuramente crudele, che però non può intaccare la maestosità di una trama lunga un anno. Sotto il cielo di Budapest Mourinho ha perso incredibilmente quella finale di Europa League che incredibilmente aveva conquistato. E lo ha fatto con una squadra plasmata a sua immagine e somiglianza, straziata nella carne dopo un recupero lungo quasi quanto i due tempi supplementari, arrivata ai rigori senza rigoristi, impiombata da un arbitraggio opinabile. José, l’uomo che aveva detto di venire subito dopo Dio, si è scoperto improvvisamente umano. L’uomo che non aveva mai perso una finale europea si è trovato a soccombere al timone di una squadra che invece i trofei se li è spesso lasciati sfuggire in modo traumatico e doloroso: la Coppa dei campioni contro il Liverpool, in casa, nel 1984, la Coppa Uefa contro l’Inter nel 1991, la Coppa Italia contro la Lazio nel 2013.

Tutte disfatte che avevano regalato ai tifosi una pioggia di lacrime e un nuovo filone letterario, quello del “mai una gioia”, quello del “che sarà, sarà. Ovunque ti sosterrem”. L’importanza di Mourinho per questa squadra (ma anche per il club) è racchiusa tutta qui. Non tanto nell’aver conquistato due finali continentali in due anni, quanto nell’aver trasformato i giallorossi in pretendenti credibili per la vittoria finale. È stato così anche mercoledì sera, quando fino al palo colpito da Rakitic agli sgoccioli del primo tempo la Roma ha giocato il calcio migliore dei suoi ultimi mesi. Niente bus davanti alla porta come contro il Bayer Leverkusen, ma una difesa alta, un centrocampo soverchiante, una mentalità propositiva. Una sorpresa per una Roma che per lunghi tratti della stagione era stata sporca e cattiva, ma soprattutto brutta, tanto da aver trovato la sua estetica in un gioco ferocemente antiestetico. Ed è proprio per questo che la sconfitta arrivata ai rigori (con tanto di ripetizione del penalty decisivo di Montiel) fa ancora più male.

Mercoledì sera la gestione di Mourinho è stata perfetta. Più dopo la partita che durante. La sostituzione di Dybala con Wijnaldum (figura misteriosa ed ectoplasmatica in questa sua avventura nella capitale) e non con El Shaarawy, l’uomo più in forma fra i giallorossi, è stata cervellotica e inspiegabile, probabilmente controproducente. Ma è nella gestione del dolore che Mou ha prodotto il suo ennesimo capolavoro. Dopo che la coppa era svanita come una bolla di sapone, l’uomo di Setubal ha tirato fuori tutta l’umanità che nasconde dietro quella patina da burbero. Ha preso Bove per mano e l’ha portato via come un padre farebbe con il figlioletto, ha dato coraggio a un inconsolabile Dybala, ha cercato il contatto fisico con tutti gli sconfitti. Poi Mou ha chiamato la squadra, l’ha riunita intorno a sé in un cerchio che tutto era ormai fuorché magico. “Stiamo qui, stiamo uniti”, ha detto. E mentre tutto intorno montava la festa, i suoi uomini lo hanno ascoltato in un silenzio quasi chiesastico. “Avete giocato una gran finale – ha esclamato il tecnico – tutta l’Europa vi ha visto”. È andato avanti per qualche secondo. Anche se non c’era poi molto altro da dire. Con i suoi ragazzi che pendevano dalle sue labbra. Con le lacrime che precipitavano giù dagli occhi. Subito dopo José Mourinho ha portato la squadra sotto la curva giallorossa, ha camminato sul prato della Puskas Arena ricevendo un lungo applauso collettivo. Da parte dei romanisti. Da parte dei tifosi del Siviglia.

Mourinho ha gonfiato le guance e ha accartocciato le labbra. Con gli occhi lucidi, come a Tirana, anche se stavolta non c’era nessun trofeo da aspergere con acqua salata. “Ho detto che saremmo usciti con la coppa o morti – ha detto l’uomo di Setubal nel dopopoartita – Siamo usciti morti di stanchezza fisica, mentale e perché pensiamo il risultato sia ingiusto”. Sembra di leggere “Ricordo di Francia”, dove Paul Celan scrive: “Eravamo morti, ma potevamo respirare”. È un sentimento che trafigge tutti. Calciatori e tifosi. Quelli che erano in campo, quelli che erano sugli spalti Budapest e quelli che si erano stretti all’Olimpico di Roma. Perché dopo una giornata di abbracci e speranze, una tifoseria intera aveva scoperto il senso di quel verso di Corrado Alvaro che spiega che “la vita non è altro che un rasentarsi di solitudini”. È stato così soprattutto per Mou, che si è andato a prendere la sua medaglia d’argento da solo, prima ancora che entrasse in campo il trofeo, e poi l’ha regalata a un tifoso. «Ho vinto 5 finali europee – ha detto José ai giornalisti – questa l’ho persa eppure non sono mai tornato a casa più orgoglioso di questa volta”.

È una frase che si colloca lungo il confine indefinibile che separa la verità più pura dalla boutade. Eppure già a nessuno importava più della coppa. Tutti volevano sapere del futuro del portoghese. Mourinho ha spiegato di voler rimanere. Ma a determinate condizioni. Vuole più giocatori di livello. Vuole traguardi più importanti. Vuole piangere di nuovo, ma di gioia. “I miei giocatori meritano di più e anche io merito di più”, ha spiegato prima di sparire nella pancia dello stadio. Per rivederlo ci sono volute le telecamere puntate sull’arbitro Taylor. Mou gli si è avvicinato nel parcheggio. Con una mano in tasca e lo sguardo sprezzante. “You’re a fucking disgrace man!”, gli ha urlato, come se fosse legato ai tifosi da un mandato imperativo. A Budapest l’uomo di Setubal ha dimostrato di non essere più infallibile. Ma forse la vera impresa Mou l’aveva fatta qualche settimana fa, quando aveva portato questa squadra in finale. E anche per questo sarebbe davvero un peccato non provare la terza campagna europea alla guida della Roma.

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