La premier Meloni in un comizio elettorale a Catania ha definito le tasse come un pizzo di stato. Per spingere i suoi al voto ha usato una retorica eversiva e antistatalista che raramente si vede. Associare i servizi resi dallo Stato a quelli offerti dalla mafia subito mi ha scioccato, perché non pensavo che la premier della ottava economia mondiale potesse scendere a questo livello infimo da quarto mondo. Poi mi sono profondamente vergognato come cittadino e come contribuente, ma questo è un altro discorso.

Superato lo sconforto iniziale, mi sono chiesto quali potessero essere le motivazioni di questa regressione antropologica della destra sociale e dove stesse esattamente l’errore. In questo mi ha aiutato un libo abbastanza recente di Dominic Frisby sulla storia delle tasse dal titolo indicativo Dayligth Robbery (2019), che potremmo tradurre come ladrocinio quotidiano, quindi siamo sulla linea meloniana. Quotidiano perché in effetti ogni nostro acquisto giornaliero comporta il versamento di un balzello allo stato, ma è il primo termine che ci può aiutare a sbrogliare la matassa. Posto che non esiste civilizzazione senza tasse, l’autore ricostruisce con stile brioso l’evoluzione dei sistemi fiscali dall’antichità ai giorni nostri. Quello che emerge è che per molti secoli effettivamente le tasse sono state considerate dal popolo come una specie di furto legalizzato. In fin dei conti il prelievo fiscale, che derivava sostanzialmente dalle imposte indirette, serviva solo a soddisfare la fatua vanità dei sovrani e i privilegi dei ceti ecclesiastici e nobiliari. Rivolte contro le tasse erano continue e le repressioni sanguinose. La Rivoluzione Francese ne fornisce un ottimo esempio e la liberté dei giacobini era una liberazione da un sistema fiscale vessatorio e che ostacolava l’economia. Da qui l’idea popolana ben radicata nei secoli che comunque le tasse siano sempre un male, da ridurre senza se e senza ma.

Se fossimo ancora ai tempi della Roma papalina, Meloni avrebbe ragione a considerare ogni tassa una feroce confisca da parte dello stato; ma poi è arrivato il Novecento con il suo, per sintetizzare, capitalismo democratico. I privilegi nobiliari e fiscali sono scomparsi e i nuovi parlamenti democraticamente eletti hanno optato per un aumento della spesa pubblica a beneficio degli elettori, soprattutto quelli con un reddito medio-basso. Ecco allora che il Novecento è il secolo dello stato sociale dove la mano pubblica è intervenuta per garantire una migliore qualità della vita attraverso un reddito da pensione, un’istruzione scolastica decente, dei servizi sanitari gratuiti e così via. Naturalmente quest’enorme aumento della spesa ha richiesto anche un adeguamento delle entrate pubbliche con la nascita di una nuova imposta, l’income tax, l’imposta sul reddito.

Se vogliamo scendere nel concreto lo stato sociale ha consentito anche a Meloni di raggiungere il suo diploma di scuola superiore. Oppure, ancora con una punta di populismo, possiamo dire che sono le nostre tasse che pagano il suo ventennale e lauto salario da parlamentare. Quindi il Novecento ha cambiato la storia delle tasse: da semplice confisca ad elemento di opportunità per tutti, o quasi tutti. Naturalmente rimane il problema di come spalmare il costo dei servizi disponibili per tutti. La Costituzione propone un criterio ragionevole: quello della progressività, chi ha di più viene chiamato a pagare di più.

Idee sedimentate nei secoli non cambiano in poche generazioni. Ecco allora che la destra sociale e illiberale ha buon gioco nel sobillare l’antico istinto anarcoide e antistatalista del corpo elettorale promettendo la sempre desiderata riduzione delle tasse. Progetto possibile, certamente. Chi è al governo può decidere dall’oggi al domani di ridurre per esempio l’Iva o le aliquote dell’Irpef. Ma qui sorge un problema che svela l’ipocrisia della proposta. Questa riduzione non è accompagnata da una eguale riduzione della spesa, come sembrerebbe ovvio, ma anzi da un suo aumento. Le tasse del Novecento, guarda caso elevate nei paesi più ricchi, non servono per soddisfare i privilegi di pochi come nei secoli scorsi ma per migliorare la vita di tutti. Questo la melonieconomics lo sa bene e in effetti non si propone alcun taglio diretto alla spesa pubblica, anche se si procede con il suo cronico sotto finanziamento.

Lo stato sociale è troppo forte per abbatterlo in un giorno, più percorribile è il suo graduale sgretolamento facendo mancare i fondi necessari all’istruzione, alla sanità, alla previdenza e così via. La destra sociale, cavalcando la ribellione fiscale, apre le porte al nuovo capitalismo dei servizi, meno efficiente e di sicuro molto più caro come la sanità americana dimostra senza tema di smentite. Questa destra sociale, ironicamente, si è messa a capo della guerra alle tasse dei ricchi che gonfierà soprattutto le loro tasche. La riduzione comincia sempre dall’alto e spesso si ferma lì.

Chiusa nel suo anacronistico, ma molto redditizio politicamente, ribellismo fiscale, che cosa rimane dell’affermazione della tassa come pizzo di stato? Intanto è un’offesa nei confronti dei milioni di contribuenti che seguendo, a questo punto a malincuore, la Costituzione adempiono al loro dovere di solidarietà sociale. Se si vuole seguire per un momento la tesi governativa, potremo parlare di pizzo dello stato ma in una direzione diversa. Il pizzo vero è quello imposto dalla generazione presente a quelle future. Il debito, cioè l’altra faccia della riduzione fiscale promessa, è una tassa nei confronti dei giovani. E questo è un fatto che non può essere smentito da nessuna retorica e su cui si dovrebbe riflettere prima di fare esternazioni che non si sa quali conseguenze sociali producano.

Tollerare l’evasione è una cosa; legittimarla apertamente, come sembra, per fini elettorali è un’altra, anche a destra.

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