Le elezioni amministrative in Spagna abbattono il governo di Pedro Sànchez: il premier si è dimesso e ha convocato elezioni anticipate per il 23 luglio. Il voto locale di domenica ha visto trionfare il Partito popolare e arretrare l’alleanza progressista formata dai socialisti (guidati dallo stesso Sànchez) e dai partiti alla loro sinistra. La Spagna sarebbe tornata al voto a dicembre. “Serve un chiarimento della volontà del popolo spagnolo – ha spiegato Sànchez – un chiarimento delle politiche che il governo nazionale deve applicare e un chiarimento delle forze politiche che devono guidare questa fase. Esiste un solo metodo infallibile per risolvere questi dubbi. Questo metodo è la democrazia e, pertanto, credo che la cosa migliore sia che gli spagnoli prendano la parola e si esprimano senza indugio per definire la direzione politica del Paese”. Sànchez è in carica dal 2 giugno 2018.

Il premier spagnolo – che ha incarnato un modello possibile di sinistra europea anche per l’insistito rifiuto alle “larghe intese” – si carica sulle spalle, dunque, la sconfitta elettorale del fronte progressista. “Mi faccio carico in prima persona dei risultati e credo che sia necessario dare una risposta” ha aggiunto durante un intervento alla Moncloa, la sede del governo spagnolo, dopo aver incontrato il capo dello Stato, il re Felipe VI. Il gesto del leader socialista, ora, è interpretabile in vari modi. Il primo e più evidente è quello di un tentativo di contenere o limitare una sconfitta probabile concedendo 5 mesi in meno ai popolari per logorare un governo già infragilito dal voto di ieri e alimentare per converso il loro serbatoio di voti. E difatti la prima reazione del Pp è stata di nervosismo: “Sanchismo puro e duro – lo definiscono fonti del partito citate dal Mundo – La Spagna che starà trascorrendo le sue vacanze estive non voti”.

Ma quando parla di “chiarimento delle forze politiche” Sànchez potrebbe non limitarsi soltanto al banale meccanismo dell’alternanza di governo tra maggioranza e opposizione, principio di ogni democrazia. Potrebbe anche aver voluto mandare un definitivo messaggio interno a tutti i suoi (numerosi) alleati. Negli ultimi mesi si sono moltiplicate infatti le liti all’interno della coalizione di governo tra i socialisti e i loro “junior partner” – anche su temi sensibili come per esempio la riforma mal fatta del reato di violenza sessuale -, alle quali si è aggiunta la progressiva divisione all’interno dell’area di sinistra-sinistra, tra Podemos e le altre sigle ora riunite sotto l’insegna di Sumar, un’alleanza ideata e fondata dalla ministra del Lavoro Yolanda Diaz.

C’è chi ipotizza che la decisione di Sànchez sia motivata dalla volontà di compiere una specie di “mossa del cavallo” per riportare il sistema politico al bipartitismo e tagliare le ali estreme a sinistra e a destra: in questo caso il richiamo al “voto utile” potrebbe diventare un tormentone della campagna elettorale incipiente. Il tema delle alleanze è relativamente recente in Spagna, rispetto per esempio a quanto è sempre accaduto in Italia: il sistema politico – da quando è nata la democrazia spagnola nel 1978 – è stato di fatto sempre bipartitico (popolari da una parte, socialisti dall’altra) fino all’avvento, all’inizio degli anni Dieci del Duemila, di formazioni di “rottura” come Podemos e Ciudadanos e più di recente della stessa Vox. E l’esperienza di “alleanza all’italiana” (cioè post-elettorale) di Sànchez è stata per certi versi tribolata soprattutto negli ultimi tempi.

Viceversa il ritorno anticipato alle urne deciso da Sànchez potrebbe spingere Podemos e Sumar ad allearsi dopo un lungo tira e molla che ha prodotto vari sussulti alla stabilità dell’esecutivo. Ora – per via delle tempistiche dovute all’indizione dei comizi elettorali – i due partiti di sinistra saranno obbligati a decidere se allearsi o no entro dieci giorni: la sinergia potrebbe rivelarsi fondamentale per conquistare seggi al Congresso perché la legge elettorale ha, sì, un’ossatura proporzionale ma prevede un meccanismo che avvantaggia di parecchio i partiti più grandi.

Da cosa origina la decisione – presa in 12 ore – di Sànchez? Il risultato del voto locale del fine settimana – in cui sono andati alle urne gli elettori di oltre 8mila Comuni e dodici Regioni – è stato tutt’altro che banale. Da una parte si verifica una massiccia avanzata del Partito popolare, che ha ripreso quota – dopo una crisi durata anni causata in particolare da diversi scandali per corruzione – riassorbendo in sostanza l’elettorato che fu di Ciudadanos, partito centrista nato in Catalogna e che in quest’ultima elezione sembra destinato quasi all’estinzione. Nell’altro campo, a fronte di un calo tutto sommato relativo del Psoe, si registra un arretramento dell’elettorato alla sua sinistra rappresentato da Podemos e dall’area che si rifà a Diaz.

Sull’altro fronte il Partito popolare – che si è rivelato prima forza in molti Comuni, compresi quelli non tradizionalmente di centrodestra come Siviglia e Valencia – ha un enorme nodo da sciogliere: governare oppure no insieme alla destra estrema di Vox? Un tabù non da poco per una democrazia vecchia di poco più di 40 anni. In molte città e Regioni il contributo della forza postfranchista sarà fondamentale per avere la maggioranza. In certe situazioni “collaborazioni post-voto” ci sono state, come nell’assemblea della Comunità di Madrid. Ed è probabile che questo possa rendersi necessario anche a livello nazionale. Il leader del Pp Alberto Núñez Feijóo ha spesso ripetuto di non voler fare alleanze con Vox ma l’impatto con la realtà potrebbe costringere a riporre i desideri.

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