I fatti di Torino, protagonista la ministra Roccella, hanno un nome: dissenso. E volendo anche un cognome: spontaneo manifestato (doppio, addirittura). Hanno fatto notizia perché nel Paese che non è la Francia l’impatto con il not in my name è argomento difficile da mandare giù, è quel rospo che non sale né scende. L’espressione sconcertata, sbigottita, non preparata della titolare della Famiglia a quel dissenso legittimo cui si appella Nicola Lagioia mentre sul palco del Salone fa lo slalom tra chi lo invita a placare gli animi e chi invece apprezza il suo apparente laisser faire, laisser passer è la stessa identica maschera apparsa sul volto di Giorgia Meloni di fronte alla svirgolata di Trudeau a proposito dei diritti Lgbt.

La scena è la medesima, l’inquadratura racconta lo stesso stupore delle due donne di fronte all’inaccettabile: il no, la critica. Perché sembra di sentire un vocale che non c’è mai stato: “Se mi stanno criticando, mi stanno ostacolando”. E questo è inammissibile, oggi, qui, Italia 2023. Soprattutto per chi non è abituato a sentirsi contestare.

Peccato però che queste due contestazioni eccellenti ci siano state, pubbliche e universali, a raccontare che dire No si può, basta volerlo e il contesto giusto appare. Lo ha colto al volo il canadese Trudeau, rappresentante di un popolo che assieme all’aria respira diritti civili e non se lo sono lasciato sfuggire i presenti al Salone di Torino. Non quindi facinorosi o barricaderi, ma persone che hanno deciso di investire tempo e denari tra libri, novità editoriali, incontri e reading.

Ovvio che tutto questo sia difficile da digerire. Bisogna capire che cosa, però, risulta indigesto. E torniamo a quell’egemonia culturale di cui ha scritto Flavia Perina dieci giorni fa sulla Stampa. Un binomio che ha radici in un concetto sottile, quanto pericoloso. Ovvero: chi oggi è al governo traccia e narra la sua visione politica per contrapposizione a un pensiero culturale che si è legittimato nel tempo come forte. E vi si contrappone non con degli argomenti, sui quali il dibattito se lasciato aperto farebbe il suo corso, ma attraverso un principio delicatamente pericoloso: tutti devono dire la loro.

Espresso così, chi potrebbe dar torto a questa tesi? E’ la base della dialettica democratica il poter esprimersi liberamente. Lo dice anche la Costituzione, no? Tutti hanno diritto di manifestare la propria opinione. Peccato però che la frase continua in modo non espresso: (tutti possono dire la loro) al di là di quali siano le idee promosse. Ad analizzare attentamente questo atteggiamento è chiaro che, sebbene si giochi sul filo sottile dei diritti indiscutibili, in realtà si confonde il diritto inalienabile per cui tutti abbiamo diritto di parola con il ben diverso concetto che ciascuno possa liberamente dire tutto. E che per di più gli altri non debbano obiettare, altrimenti è vessazione.

E’ qua che a mio avviso va individuata una trincea pericolosa e va compreso che si è funamboli sul crinale di un’egemonia che non è culturale, ma sistemica. Perché sottovalutando il metodo in voga del “secondo me è così”, “io la penso così” etc, si rischia di non afferrare la pericolosità di affermazioni che in presenza di solide basi storiche sarebbe facile capire che non stanno in piedi.

Ma se quelle basi non vi sono? Quello che si nasconde oggi dietro all’aggressione alla criticata impostazione culturale di sinistra è in realtà l’intenzione di riscrivere la Storia per cancellare elementi di imbarazzo. Quindi, poiché imporsi con affermazioni perentorie sarebbe un autogol, la procedura (perché è una procedura) è quella di instillare il dubbio “dell’altro aspetto di cui tener conto”. E qui deve esserci l’allarme. Il rischio del ‘non solo-ma anche’ sembra infatti democrazia, invece è quel panem et circenses, quel contentino di cui proprio adesso dobbiamo fare a meno. Guai se tutto diventa possibile, perché il tutto possibile è l’anticamera del tutto che diventa rileggibile e quindi riscrivibile.

Si arriva in un attimo – e infatti ci si è arrivati – alla rilettura della Resistenza (la “sgrammaticatura” di via Rasella) e della Letteratura (Manzoni, patriota che difendeva la famiglia o Dante come fondatore del pensiero di destra).

Bisognava ascoltarli bene, i contenuti degli Stati generali della cultura: lì era possibile capire come si sta muovendo la marea. E in questo clima si è miracolosamente manifestato, a ridosso di poche ore in un luogo istituzionale dapprima e in un contesto di cultura poi, il dissenso verso due visioni. A Torino, in particolare, nessuno ce l’aveva con una ministra intesa come persona, ma verso la sua impostazione, che di femminista, checché si dica, ha poco o nulla. Se veramente è la famiglia in tutte le sue declinazioni quella che sta a cuore, bisognerebbe proiettare nelle scuole i documentari del cinema femminista che evidenziavano la serialità alienante della vita di una casalinga, costretta a ripetere gli stessi gesti domestici ogni giorno (Donne da slegare) o di quelle che manifestavano in piazza al grido di “I figli non sono la carriera di una donna”.

E’ chiaro che se l’obiettivo è rivedere tutto, la contestazione non è la via giusta. Anzi, è la peste. Manzoniana quanto basta.

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