L’industria fossile deve pagare per i danni inflitti al pianeta, denunciano scienziati e movimenti climatici. Bene, ma quanto? Secondo un’indagine condotta da 738 economisti del clima, i danni economici globali attesi tra il 2025 e il 2050 per i cambiamenti causati dall’uomo sono stimati in 99mila miliardi di dollari. Escluse le altre fonti di riscaldamento e considerato un aumento delle temperature di 3 gradi, il 70 per cento di questa perdita di Prodotto interno lordo (Pil) sarebbe da imputare ai combustibili fossili. Parte da qui lo studio pubblicato il 19 maggio 2023 dalla rivista peer-reviewed One Earth dal titolo Time to pay the piper, fossil fuel companies’ reparations for climate damages’. Al netto delle responsabilità di governi e consumatori, lo studio propone di attribuire all’industria fossile riparazioni per 23,2 trilioni di dollari. Non solo: quantifica i pagamenti annuali dovuti dalle 21 principali compagnie per compensare i danni da fenomeni meteorologici estremi e altri cambiamenti generati dalle emissioni che queste aziende hanno prodotto tra il 1988 al 2022. “Per la prima volta abbiamo messo il cartellino col prezzo ai danni climatici di attori di primo piano come Saudi Aramco, ExxonMobil, Shell, BP, Chevron e altri”, precisa Marco Grasso, docente di Geografia Economico-Politica all’Università di Milano-Bicocca e autore dello studio insieme a Richard Heede, direttore e co-fondatore del Climate Accountability Institute.

In linea con le precedenti analisi di Heede, che attribuiscono alle 20 aziende più inquinanti il 35 per cento delle emissioni globali di metano e CO2, lo studio appena pubblicato sostiene che i 21 principali produttori di combustibili fossili a livello globale sono responsabili di 5,4 trilioni di dollari di costi economici attesi nei prossimi 25 anni come diretta conseguenza dei cambiamenti climatici. “E’ tempo di individuare le risposte – continua Grasso – e il nostro lavoro va in questo senso: i dati ci dicono che i fenomeni meteorologici estremi si intensificano, ma finora a pagare i danni sono le persone, gli Stati e a volte le assicurazioni, mentre i soggetti che nei decenni hanno accumulato straordinari profitti rimangono assenti”. Fuori i nomi, dunque. Per calcolare le responsabilità delle singole aziende, individuate in base al Carbon Majors Database che registra i dati sul carbonio emesso dai giganti del settore, gli autori hanno fatto riferimento alle loro emissioni dal 1988, anno in cui è uscito il primo rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC). “Circa la metà del riscaldamento registrato finora si è verificato a partire dalla fine degli anni Ottanta – spiega Grasso – e gli impatti del cambiamento climatico nei prossimi decenni saranno in gran parte determinati dalle emissioni prodotte a partire da quella data”.

“Certo che avremmo potuto partire dagli anni ’60 – aggiunge – perché già allora le grandi compagnie conoscevano, dati alla mano, gli effetti della combustione fossile sulle future concentrazioni di gas serra in atmosfera”. Inoltre, argomenta lo studio richiamando l’ampia letteratura in merito, “dal 1988 le affermazioni di incertezza scientifica sulle conseguenze delle emissioni di carbonio sono insostenibili“. Non potevano non sapere, dunque. Anzi, “ci sono fatti rilevanti che dimostrano che sapevano tutto da molto tempo, ma hanno protratto il business e orchestrato una macchina che ha infiltrato la finanza, la ricerca, i media e le altre industrie, e bloccato la lotta al cambiamento climatico per trent’anni”, sostiene il docente della Bicocca di Milano. Che rilancia: “Per questo, accanto alla responsabilità causale c’è una precisa responsabilità morale che giustifica la considerazione etica alla base di questo studio”. Per le emissioni del periodo 1988-2022, “le 21 maggiori compagnie petrolifere, del gas e del carbone sono quindi responsabili di 5.444 miliardi di dollari di perdita di Pil prevista per il periodo 2025-2050, ovvero 209 miliardi di dollari all’anno”, scrivono Heede e Grasso.

Le principali 21 compagnie sono responsabili del 35,9% delle emissioni nel periodo considerato. In testa alla classifica del debito climatico da risarcire c’è la saudita Saudi Aramco, con il 4,78% delle emissioni e 42,7 miliardi di dollari da restituire ogni anni, dal 2025 al 2050 per un totale di 1.110 miliardi di dollari. Al secondo posto per emissioni (4,49%) c’è la russa Gazprom, con 20,1 miliardi di risarcimenti l’anno e debito un totale 522 miliardi di dollari. Al terzo posto (2,60% delle emissioni) c’è la compagnia iraniana National Iranian Oil, per la quale, però, lo studio non propone risarcimenti. “Molte compagnie sono aziende di Stato e se appartengono a nazioni povere bisogna considerare il ruolo che le loro tasse giocano nelle fragili economie di quei Paesi, a partire dai servizi essenziali alla popolazione”, chiarisce Grasso. Per questo gli autori esentano quattro aziende di Paesi a basso reddito e dimezzano la responsabilità calcolata per le aziende di sei Paesi a medio reddito, come appunto le russe Gazprom e Rosneft e altre. Nel gruppo al quale lo studio non fa sconti, oltre Saudi Aramco compaiono le statunitensi ExxonMobil e Chevron (478 e 333 miliardi di dollari), le britanniche Shell e BP (424 e 377 miliardi) e anche la francese TotalEnergies (243 miliardi).

Somme esorbitanti? “Sono inferiori ai profitti annuali di tutte le compagnie”, ribatte Grasso. E fa l’esempio di Exxon coi suoi 18,4 miliardi l’anno da risarcire: “Meno del profitto che ha fatto nel solo terzo trimestre del 2022“. Quanto all’obiettivo, gli autori sottolineano che non si tratta di una proposta politica. “Siamo alla fase di proposta teorica che deve far discutere la politica, destabilizzare il senso comune e aumentare la consapevolezza perché decisioni che oggi possono apparire impopolari vengano richieste da una parte sempre più ampia dell’opinione pubblica, spronando i politici ad agire”, dice Grasso, fiducioso che lavori come questo “informino gli sforzi futuri per indirizzare i pagamenti da parte delle aziende di combustibili fossili alle parti danneggiate”. A cominciare dai Paesi dove la cultura delle cause legali di risarcimento è più radicata, “e un riferimento per quantificare i danni non può che essere utile”. Certo, aggiunge Heede, “questa è solo la punta dell’iceberg dei danni climatici a lungo termine, dei costi di mitigazione e adattamento, nella misura in cui la nostra misura della perdita di Pil al 2050, pur essendo sostanziale, ignora il valore dei servizi ecosistemici persi, delle estinzioni, della perdita di vite umane e di mezzi di sussistenza, e di altre componenti del benessere che non vengono catturate dal Prodotto interno lordo”.

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