Una mafia senza politica è ancora mafia?
Abbiamo imparato in questi anni che la mafia resta mafia anche quando non spara, o meglio: quando non spara a bersagli “eccellenti”, visto che in quanto a sparare per regolare conti interni, anche ammazzando incidentalmente innocenti, non ha mai smesso (come accaduto ancora il 2 maggio a Cassano allo Ionio con l’assassinio di Antonella Lopardo).

Abbiamo quotidiane conferme che la mafia resta mafia pur modificando radicalmente la propria strategia di accumulazione, avendo ormai preso confidenza con la frontiera delle cripto-valute, della blockchain, del dark web, anche se non disdegna la vecchia e amata terra, utile soprattutto per frodare fondi europei, la droga, le armi, il gioco d’azzardo, i rifiuti e i mattoni (l’ultima operazione di sequestro immobiliare è raccontata da Il Fatto giusto questa mattina).

Sappiamo persino che uno dei tratti essenziali della mafia ossia il vincolo associativo fondante quella forza intimidatrice che produce assoggettamento, cioè paura ed omertà, è ormai rintracciabile in organizzazioni criminali molto distanti da quelle per le quali originariamente è stato enucleato e descritto, tanto che siamo riusciti ad applicare il 416 bis del Codice Penale, cioè il reato di mafia, anche ai i clan nigeriani (la mia Città, Torino, ha avuto questo triste primato). Ma una mafia senza politica è ancora mafia?

Falcone ad un certo punto sintetizzò la faccenda in questo modo: “Mafia e Stato sono due poteri che occupano lo stesso territorio. O si fanno la guerra o si mettono d’accordo”. La mafia che abbiamo imparato a conoscere e a maledire, è la mafia che si percepisce come potere pubblico, concorrente rispetto a quello repubblicano. Una organizzazione criminale sostanzialmente eversiva dell’ordine democratico perché a sua volta portatrice di una sovranità originaria su cose e persone. Questa è la mafia che per decenni ha “contribuito” alle trame di potere che hanno condizionato la Repubblica da Portella della Ginestra in avanti, almeno fino alla stagione ’90-’94, la mafia capace di ottenere coperture, depistaggi, contro partite, in un rapporto che è andato molto al di là di quello necessario alla riuscita delle indagini. Questa è la mafia che ha cercato sempre, in un modo o in un altro, di condizionare il momento topico della vita democratica cioè le elezioni, per poter poi interferire con l’attività di allocazione delle risorse pubbliche (appalti, concessioni, nomine…).

Tanto che la reazione dello Stato ha prodotto nei primi anni 90 due strumenti ad hoc: lo scioglimento dei Comuni per infiltrazione mafiosa e il reato di voto di scambio, quest’ultimo più volte riformato negli ultimi dieci anni, attraverso una significativa anticipazione della consumazione della fattispecie al momento della formazione dell’accordo tra esponente politico (o suo rappresentante) e mafia. Che ne è di questa mafia oggi?

Scrivo mentre più di quattro milioni di italiani sono chiamati al voto in centinaia di Comuni (ed anche per questa circostanza è un peccato che la Commissione parlamentare antimafia sia rimasta nel congelatore): le mafie avranno agito in questo frangente e come? Ci sono casi nei quali viene persino da chiedersi se le mafie, pur volendolo, siano ancora capaci di pesare nelle campagne elettorali.

In Piemonte, per esempio, l’operazione della Dda di Torino denominata “Fenice” scattata nel 2019 ha portato in carcere per voto di scambio l’allora Assessore della Giunta Cirio, Roberto Rosso, accusato di aver comprato un pacchetto di voti da alcuni esponenti della ‘ndrangheta, a loro volta arrestati, processati con rito abbreviato e condannati in tutti e tre i gradi di giudizio (Roberto Rosso invece, avendo scelto il rito ordinario, è stato per ora condannato soltanto in primo grado). Ma cosa colpisce di questa vicenda? Che Rosso, all’indomani della sua elezione non ne vuole sapere di onorare l’impegno in denaro con Onofrio Garcea e sodali, anzi li definisce “cacciapalle”, cioè del tutto incapaci di fare ciò per cui erano stati ingaggiati. In verità a loro “discolpa” i mafiosi potrebbero addurre l’aver ceduto alla tentazione di strafare, dal momento che, come si evince dalle intercettazioni, Onofrio Garcea diceva ai suoi: “Noi andiamo alla cena di Rosso, ma voi domani votate il nostro… voi domani votate Garcea”. Però Domenico Garcea (cugino del boss, ma mai nemmeno indagato) in quelle elezioni regionali prese appena un migliaio di voti, non risultando eletto. Insomma: una figura davvero meschina per il temuto clan ‘ndranghetista. Dunque una mafia feroce, ricca ma impotente?

Sarebbe bello poter fare questa domanda al dott. Toso, pm della Dda di Torino, titolare della inchiesta Fenice (insieme alla collega Abbatecola), che proprio mercoledì 17 sarà più che opportunamente ascoltato dalla Commissione Legalità del Consiglio Comunale di Torino. Chissà che a porgli la domanda non possa essere proprio Domenico Garcea, che nel frattempo è riuscito a farsi eleggere consigliere comunale e siede giustappunto in Commissione Legalità.

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