L’intervista a Michela Murgia di Aldo Cazzullo, sul Corriere, ha suscitato reazioni di tutti i tipi. Una collega mi scrive su Fb: “Sono un po’ perplessa rispetto alla condivisione del fine vita, dal punto di vista di una persona con più risorse di altri. Poi ogni persona sceglie per sé e mi fermo qui, senza elencare ciò che mi disturba. La morte rende tutti uguali? o amplifica le differenze?”. Forse dipende da come la “condivisione” viene fatta. La scelta di Michela Murgia non è solo una richiesta di attenzione – assolutamente umana e comprensibile da parte di chi abbia raggiunto la certezza che il suo tempo è quasi finito – ma è anche un dono, un’opportunità di riflessione che offre agli altri. Io almeno l’ho vissuta così. Anche perché Murgia non ha “usato” la malattia.

Quando, la prima volta, fu colpita a un polmone: “Tossivo. – racconta a Cazzullo – Feci un controllo. Era a uno stadio precocissimo, lo riconoscemmo subito. Una botta di culo. Però ero in campagna elettorale. Quella volta non potei dire che ero malata. Gli avversari mi avrebbero accusata di speculare sul dolore; i sostenitori non avrebbero visto in me la forza che cercavano. Dovetti nascondere il male, farmi operare altrove”.

Sulla sua interpretazione del cancro non saprei pronunciarmi. Non so se, al suo posto, lo vedrei come “un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa”. Tre anni fa ho perso il mio più caro amico, che, come direbbe Murgia, “fece guerra al suo corpo” (e a un tumore) per 6 anni e io so con certezza che, per come era configurato il male, non aveva altra scelta. Murgia dice “Posso sopportare il dolore, non di non essere presente a me stessa”. Io ho visto una persona geniale, vitale, spiritosa e profondamente buona ridotta a poco a poco, a un grumo di dolore e terrorizzata dalle continue mutazioni del medesimo, con un’unica prospettiva: la morte. Sergio (si chiamava così) mi diceva: “Mi sento come un condannato a cui venga offerta la scelta tra la forca e la ghigliottina”. Tra il dolore e il sonno della morfina… Fino all’ultimo mese ha cercato di alzarsi, di camminare, anche a costo di fare 100 metri in un’ora, perché sapeva che il male prima o poi lo avrebbe inchiodato al letto in un groviglio di tubi. Gli ultimi mesi, aveva detto più volte a noi amici più intimi che pensava di farla finita.

Quando rileggo le dichiarazioni del cardinale Ruini o di altri prelati che, scomunicando il fine vita o il suicidio assistito, invitano a “dedicare il proprio dolore a Dio”, sento spirare l’antico vento infernale dell’Inquisizione, la voglia mai sopita del clero di imporre in proprio punto di vista anche a noi atei e ‘miscredenti’. Con Forza Italia che si accoda e dice che “Non c’è fretta…”.

Il testo di Murgia è un testo fondamentale anche da questo punto di vista, perché afferma il diritto a una morte dignitosa: “Chi mi vuol bene sa cosa deve fare – dice sempre a Cazzullo – Sono sempre stata vicina a Marco Cappato“. Ma il ‘testamento’ della Murgia è un dono soprattutto perché riesce ad esprimere una grande, meravigliosa gratitudine verso la vita che ha vissuto.

“La morte non le pare un’ingiustizia?” chiede Cazzullo. E lei risponde “No. Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi”. Cazzullo incalza: “Le altre vite quali sono?” e Murgia risponde: “Ho consegnato cartelle esattoriali. Ho insegnato per sei anni religione. Ho diretto il reparto amministrativo di una centrale termoelettrica. Ho portato piatti in tavola. Ho venduto multiproprietà. Ho fatto la portiera notturna in un hotel…”.

E’ la stessa gratitudine verso la vita che, spesso, troviamo nei “Jisei”, le poesie giapponesi dell’addio, che Ornella Civardi, traduttrice e studiosa della letteratura giapponese, ha raccolto nel libro Jisei poesie dell’addio (“SE” editore 2017). Quando la incontrai, mi citò una frase scritta su un bigliettino da Akutagawa Ryūnosuke, uno dei più grandi narratori del novecento giapponese: “La bellezza del mondo è tale perché la riflettono gli occhi di un uomo già consegnato alla morte”.

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