di Cristiano Lucchi

Come può un’amministrazione comunale salvare dei pini con oltre settanta anni di vita? A Firenze esiste una leggenda metropolitana, usata spesso anche dalle istituzioni preposte alla difesa del verde pubblico, che racconta che non è possibile. Così, da anni, grandi piante vengono eradicate e sostituite da altre varietà, mutando il paesaggio novecentesco della città. Basta andare in viale Redi in questi giorni per assistere all’ultimo tentativo di scempio di pini domestici, fortunatamente fermato al momento dai cittadini. Ciò avviene perché, dicono, non sono adatti alla città ma al mare (sbagliano albero, però). Perché hanno radici di superficie che non reggono se si alza un po’ di vento. Perché sono molto pericolosi per le auto, visto che per anni cercano di irrompere violentemente, rompendolo, nell’asfalto con cui li hanno circondati.

Però basta andare fuori provincia, almeno una volta nella vita, per comprendere che esisterebbe un modo per tutelare queste chiome di incomparabile bellezza anche a Firenze, città che qualcuno definisce smart ma in realtà poco furba quando decide di evirare decine di filari di alberi adulti, utili, oltreché a farci respirare, anche ad abbattere la temperatura nelle isole di calore sempre più diffuse nelle nostre strade.

Sono andato a Trieste, lungo il mare, nel quartiere di Barcola dove la bora può arrivare a battere tra i 150 e i 200km orari. Poco prima della pineta risalente agli anni Cinquanta – lungo viale Miramare, unico accesso costiero alla città e quindi sempre molto trafficato – esiste un piccolo giardino pubblico con 17 pini piantati a metà del secolo scorso proprio sul confine tra la strada e il marciapiede. Sono alti oltre 20 metri e, accidenti a loro, poco prima della pandemia le radici avevano sconquassato sia la strada che il marciapiede. “Pena di morte!” – avrebbe decretato qualcuno alle nostre latitudini; “Piantiamo dei ginko biloba o dei peri cinesi! Quelli sì che sono autoctoni, mica vengono dal mare!”.

Forse approfittando della calma dovuta al confinamento imposto dai tempi, il Servizio verde pubblico del Comune di Trieste ha deciso di intervenire con forza, razionalità e soprattutto acume. Registrato il problema hanno attaccato il cervello e messo all’opera due progettisti tra i migliori: il dottore forestale Francesco Panepinto e l’ingegnere Stefano Hager. Insieme hanno deciso che se dovevano progettare la messa in sicurezza della carreggiata era proprio il caso che lo facessero bene, salvando così tutti e 17 gli anziani pini marittimi. E così è stato.

Chi oggi si recasse a Trieste può assistere ad uno spettacolo inimmaginabile a Firenze. Una strada liscia, appena asfaltata, senza radici che sporgono (e mai più sporgeranno), e accanto l’intera filiera alberata, più bella e rigogliosa che mai, visto che dopo l’intervento pubblico le radici sono protette, le auto viaggiano sicure e le persone d’estate godono di quei 5/6 gradi di temperatura più fresca sotto la loro ombra. Ma come è potuto accadere?

Dopo aver assistito ai lavori, e visti i risultati, sono andato a parlare con Stefano Hager per farmi raccontare il “miracolo”. E ho capito che non di miracolo si tratta, ma di uso dell’intelligenza umana applicato alla costruzione di un mondo un pizzico migliore di quello di cui disponiamo.

“L’obbiettivo dell’intervento era quello di risanare le pavimentazioni esistenti salvaguardando le alberature, e quindi le radici, soprattutto quelle con una funzione statica. I 17 i pini erano tutti forti e sani, nonostante l’età e l’usura a cui sono sottoposti quotidianamente, compreso il vento forte che li colpisce periodicamente – dice Hager – Il loro problema era la mancanza di ossigenazione delle radici. Stavano letteralmente soffocando e, come un essere umano costretto sott’acqua, cercavano aria andando verso l’alto, rompendo così l’asfalto e respirando dalle crepe prodotte. A peggiorare la situazione, inoltre, la presenza della bora che ha fatto maggiormente affiorare le radici verso la strada per l’effetto delle tensioni trasmesse dall’azione del vento”.

Vado su internet per capire meglio e scopro che le radici hanno la necessità non solo di acqua ma anche di ossigeno; questo perché l’albero non dispone di meccanismi di trasporto dell’ossigeno verso le cellule che non sono a diretto contatto con l’aria (come ad esempio le foglie). L’amministrazione che getta uno strato di asfalto senza considerare questo aspetto elimina ogni possibilità di respiro e provoca l’asfissia dell’apparato radicale dell’albero. Se a questo punto il tronco cede e cade sulla testa di qualcuno la colpa parrebbe non essere della pianta.

Una volta compreso che anche le radici hanno bisogno di respirare approfondisco qual è stata la ratio del loro intervento: “Asportare la vecchia pavimentazione e gettare un nuovo manto bituminoso avrebbe comportato il ripresentarsi del problema in tempi relativamente brevi” dice Hager, ma cerco anche di capire quale innovazione è stata introdotta nel cantiere. E qui è bene andare con calma e descrivere passo passo le fasi dell’operazione.

È sempre Hager che parla, dettandomi praticamente un manuale/decalogo di come dovrebbe agire un buon funzionario quando mette mano ad un bene fondamentale come gli alberi di una città:

– Tutto l’intervento è stato realizzato prevalentemente a mano o con ridotte attrezzature meccaniche con l’obiettivo di preservare le radici.
– Abbiamo rimosso il manto stradale e il sottofondo per una profondità media di 30 centimetri. Lo abbiamo fatto con molta attenzione, evitando di usare il martello pneumatico, scavando invece con una lancia ad aria compressa.
– Per rompere gli strati più friabili abbiamo usato un’aspirapolvere con un bocchettone dal diametro di 20 centimetri.
– Sempre con l’aria compressa abbiamo pulito le radici da tutte le incrostazioni.
– Una volta riportate a giorno le radici le abbiamo flesse con molta delicatezza verso il basso. Dove necessario abbiamo usato reti in fibra di vetro per tenerle giù senza spaccarle.
– Per favorire l’ossigenazione le radici sono state ricoperte con materiale inerte sciolto che garantisce l’aerazione e limita i fenomeni di risalita delle radici. Abbiamo inserito anche dei tubi drenanti.
– Il nuovo marciapiede, lievemente inclinato per facilitare lo smaltimento delle acque, è stato realizzato con calcestruzzo drenante, un materiale molto pesante che contribuisce a stabilizzare le alberature nei confronti dei venti.
– L’elevata permeabilità del calcestruzzo drenante consente inoltre il passaggio delle acque piovane e dell’ossigeno verso le radici, prima impedita dalla pavimentazione bituminosa.
– Durante tutti i lavori le radici sono state innaffiate.
– Durante tutti i lavori abbiamo monitorato la stabilità delle piante con dei fili a piombo.

Non c’è altro da aggiungere. Se non guardare le foto che accompagnano questo articolo per comprendere una volta per tutte che gli alberi sani non vanno mai uccisi.

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