E’ andato tutto bene. Uno scudetto a lungo rilascio, come una sorta di Capodanno centellinato da mesi. E una volta terminato il conto alla rovescia il grande godimento della città (e non solo, calcolando i partenopei che vivono in tutt’Italia e all’estero) è stato stappato come una bottiglia di champagne. E a stapparlo, in terra friulana, è stato Victor “Victoria” Osimhen, il centravanti marziano di questa squadra che non è un miracolo, ma figlia di una visione calcistica e imprenditoriale, di esempio per tutta Italia, soprattutto per le tre sorelle del Nord soffocate dalle plusvalenze e dai debiti.

E’ andato tutto bene e questa festa arriva a trentatré anni dall’ultima, quando il mio Napoli vinse il secondo tricolore con alla testa il suo eterno e immortale sovrano Diego Armando Maradona. Il re della pelota, agli occhi degli stessi napoletani, fu elevato al rango di un nuovo Masaniello artefice di un riscatto sociale di una metropoli-nazione distrutta dal terremoto, dalla camorra e da un letale consociativismo democristian-comunista. Fu inteso così da tutti, cittadini ricchi e cittadini poveri, lazzari e intellettuali, popolo ed élite.

Oggi non è certamente così. E non solo perché Napoli è sì ancora tanto caos e disoccupazione e camorra, ma il turismo nel centro storico l’ha rilanciata come una delle piazze italiane più visitate. Ma soprattutto perché mai come questa volta sarebbe sbagliato e fuorviante sovrapporre calcio, sociologia, politica e antropologia. Caroselli e fuochi d’artificio a parte, questo scudetto è un’impresa sportiva che ha veramente poco della città nella sua costruzione. Anzi.

E’ andato tutto bene e allora è necessario tornare all’origine di questa dittatura scandita da nove mesi di vittorie. Era il mese di luglio dell’anno scorso, al ritiro del Napoli a Dimaro, nel Trentino-Alto Adige. Ed era la prima metà del mese. Il presidente Aurelio De Laurentiis era barricato in albergo e per motivi di sicurezza evitava di uscire. Stava allestendo lo squadrone di questa stagione ma il popolo invocava gli idoli appena andati via: Lorenzo Insigne, Kalidou Koulibaly e soprattutto Dries Mertens, il belga che alla napoletaneria (versione deleteria della napoletanità, secondo la buonanima di Raffaele La Capria) aveva sacrificato persino il nome del figlioletto, chiamandolo Ciro Romeo.

La sera del 16 luglio, di sabato, nella piazzetta di Dimaro fu presentata la nuova rosa. Sul palco anche uno dei due fuoriclasse di questo Napoli: il georgiano Khvicha Kvaratskhelia (l’altro è il nigeriano Victor Osimhen). Dalla folla si alzò un cartello con l’indicazione autostradale “A16” e poi vennero intonati cori di rimpianto per Ciro Mertens. Era nato il movimento A16, dal numero dell’autostrada che porta da Napoli a Bari, dove la famiglia De Laurentiis è proprietaria della squadra cittadina. Insomma: un invito ad andarsene lì per sempre, vendendo il Napoli.

Due settimane più tardi, il Pappone – questo il nomignolo dispregiativo con cui viene appellato il presidente dai suoi contestatori – acquistò il sudcoreano Kim, autentico mostro della difesa, e apparve questo striscione: “Kim, Merit, Marlboro, tre pacchetti dieci euro. Pezzente non parli più, paga i debiti e sparisci”. Questo il clima, dunque. Mesi dopo gli azzurri sono lassù e lo devono anche al fatto di essersi finalmente liberati di Mertens, Insigne e Koulibaly, che lo stesso presidente ha accusato di recente di “nonnismo” nello spogliatoio.

E’ andato tutto bene ed è stato uno scudetto a sorpresa per la città e per l’Italia intera. Figlio non di una monarchia come quella di Diego, ma di una democrazia repubblicana formata da giocatori di ben diciotto nazionalità dove non è un’ossessione riuscire a esprimersi nella lingua napoletana. Campioni come Osimhen e Kvara continuano a parlare inglese e chissenefrega se poi vanno nel tempo libero a Parigi o Milano. Certo, ognuno dei giocatori è fiero e contento di aver dato felicità alla città. A partire dal loro allenatore Luciano Spalletti detto lo Sciamano.

Una storia nella storia: un tecnico che nel bene e nel male aveva legato il suo nome alla Roma e all’addio di Totti e adesso si ritrova a essere l’allenatore più anziano a vincere lo scudetto. Sabato scorso, alla vigilia della festa mancata di Napoli-Salernitana, ha citato Il piccolo principe: “E’ il tempo che determina che tu vuoi bene a una cosa”. “E’ il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la rosa così importante”, nella versione originale. E adesso, in queste ore, la città ricambia tutto questo amore. La festa è iniziata stanotte e finirà il 4 giugno, quando si disputerà Napoli-Sampdoria, ultima giornata del campionato.

E’ andato tutto bene ma le istituzioni hanno inoculato dosi massicce di ansia e paura in tutte le fasi preparatorie di questa festa, al punto da paventare un’Apocalisse definitiva, senza un domani. Tre i protagonisti: il sindaco Gaetano Manfredi, il prefetto Claudio Palomba (su spinta del ministro leghista Piantedosi), lo stesso presidente De Laurentiis. Risultato: un pasticcio in cui lo Stato, nella sua forma dell’ordine pubblico, si è arreso due volte.

La prima al principio di aprile, quando il Napoli ha giocato in casa al Maradona contro il Milan. Quella sera del 2 aprile gli ultras delle curve hanno inscenato una grottesca protesta fatta di silenzio e mazzate (per chi non ubbidiva) contro il caro biglietti e il divieto di introdurre tamburi e striscioni nello stadio. Poca roba rispetto alla portata storica dell’evento scudetto e alla vigilia del doppio confronto sempre col Milan nei quarti di Champions League, ma tant’è. La procura ha poi aperto un’inchiesta sui tifosi violenti e il presidente ha scelto il pugno duro contro gli ultras.

La linea della legalità è però durata lo spazio di un amen. Il tempo di arrivare alla vigilia di Napoli-Milan ritorno di Champions, il 18 aprile, che tutto si è ammosciato (per la cronaca gli azzurri hanno perso coi rossoneri sia in campionato sia in Europa): pressato dal prefetto e dal sindaco, De Laurentiis ha trattato e fatto pace con gli ultras, nel segno della tradizione. Cioè un lieto fine a tarallucci e vino che ha fatto contenti il prefetto e il sindaco terrorizzati da quello che sarebbe potuto accadere una volta vinto lo scudetto. Ecco perché questa festa è stata preceduta dallo studio di piani vari per chiudere e pedonalizzare la città, con tanto di check-point modello Guerra Fredda e l’impiego di migliaia di agenti.

La seconda resa è stata quella del repentino e forzato spostamento di Napoli-Salernitana da sabato a domenica scorsa. Ma il destino non si può forzare e alla fine lo scudetto è stato vinto di giovedì, in un turno infrasettimanale del campionato.

E’ andato tutto bene e tre è il numero perfetto, nonostante le istituzioni, il disastro trasporti in questi giorni, l’impunità dei tifosi violenti, lo scetticismo estivo di gran parte della città. E’ stato lo scudetto del lavoro e della pianificazione. Forza Napoli!

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