Leggendo con attenzione il saggio di Daniele Conversi, Cambiamenti climatici, Mondadori Education, ho colto l’importanza di un aspetto della resistenza al cambiamento climatico finora poco analizzata: il nazionalismo, sentimento ormai prevalente in tutte le aree del pianeta. Mi sono così tornate alla mente le parole pronunciate 61 anni fa da Gagarin, il primo cosmonauta: “Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere e confini…”. Immerso in quella straordinaria e irrinunciabile fascia di atmosfera che rende possibile la vita sul nostro pianeta, Jiurij si accorse che da lassù si sfuocavano quei solchi profondi – di diversa natura: etnica, geopolitica e talvolta perfino interiore, spirituale e religiosa – che hanno segnato la storia dei popoli sparsi e spesso divisi e in armi su grandi e piccole tratti di territorio. Cos’erano, a fronte di un globo multiforme e dinamico perfino nei suoi colori cangianti, mai osservati prima in così rapida successione, quelle “nazioni” trattenute dai loro confini, cui Daniele Conversi nel suo bel libro attribuisce parte della miopia nel non rendersi conto delle emergenze globali di questa nuova era?

L’autore confuta il nazionalismo – l’ideologia sottostante le realtà degli Stati-nazione – come copertura determinante della sottovalutazione dell’incombente crisi climatica, dell’espandersi dei conflitti, di una ingiustizia sociale mai tanto ferale quanto all’alba del nuovo millennio. In questa identificazione del paesaggio terrestre ridisegnato dai confini con istituzioni e poteri colpevolmente ripiegati su se stessi e in esasperante competizione, sta molto della drammaticità “epocale e antropogenica” di un futuro prossimo in cui il tempo viene a mancare.

Siamo così messi di fronte ad un difetto culturale strutturale, che pervade tuttora largamente la formazione e l’informazione a tutte le latitudini: la mancanza di un approccio interdisciplinare che acquisisca oltre all’umanesimo la descrizione scientifica della realtà. L’interdisciplinarietà irrobustirebbe la presa d’atto della catastrofe che si profila e non lascerebbe spazio ad un perverso negazionismo, con cui pressoché l’intero mondo politico riduce ogni giorno di più il tempo e le risorse per l’azione pubblica.

Dopo un puntuale riscontro dei drammi cui andiamo incontro senza slanci di adeguata preoccupazione, si lamenta una narrazione del presente privata delle grandi conquiste intellettuali e conoscitive delle nuove scienze, affacciatesi da Newton in poi. Basterebbe pensare di non essere più gli unici osservatori – nemmeno al centro di un universo che ha 14 miliardi di anni (e la vita è apparsa solo qualche miliardo di anni fa) – per sbarazzarci dell’indifferenza antropocentrica verso la natura, che fa ancora da perno nell’istituzione scolastica d’impronta determinista e nell’ostinata cultura della crescita. In fondo, come non capire e perché non insegnare fin dalle elementari che siamo vivi e parte del vivente perché sovrastati da un velo di gas che anche fisicamente ci accomuna (solo una sessantina di km di atmosfera)? Un velo che filtra l’energia di una stella lontana, degradandola fino ad essere riemessa nello spazio cosmico dopo aver “rimbalzato” attraverso molteplici processi entropici, che hanno nutrito la vita, consentito la riproduzione, ingentilito e talvolta inasprito gli eventi atmosferici senza che ciò richieda l’esistenza di grandi differenze di temperatura sul pianeta.

Quella stessa energia solare può vedersi mutato il proprio bilancio, interagendo con sovrabbondanze o carenze di materia o alimentandosi di combustioni, di cui è responsabile l’attività antropica che si è andata accumulando già dalla rivoluzione industriale. L’uso dei fossili, sempre più massiccio, porta ad emissioni di gas serra le cui molecole si agitano colpite dai raggi infrarossi del sole, finendo con aumentare la temperatura che inaridisce i campi, scioglie i ghiacci e aumenta il livello dei mari, acidificando gli oceani, disturbando e corrompendo il ciclo clorofilliano. In effetti, se si tratta il pianeta come un manufatto, sostituendo irresponsabilmente l’ecosistema naturale con un ecosistema artificiale, si tranciano connessioni indispensabili alla riproduzione delle nostre vite, lasciando sì immutato l’Universo, ma spegnendo per sempre la nostra presenza di osservatori vivi e coscienti del “mondo stellato sopra di noi”.

A questo punto, Conversi cerca nell’ideologia del nazionalismo, con i suoi insormontabili confini, la giustificazione che i popoli ricchi trovano nel ritenere che non ci sia posto per tutti sulla Terra e che quindi le migrazioni ambientali e le guerre abbiano una loro inconfessata scusante, fino all’accettazione di una polarizzazione della società sulla base del censo. E ciò con la conseguente mimetizzazione del capitalismo sotto le insegne del nazionalismo, capace di recuperare gli abitanti di un territorio ad un’identità rinsaldata anche quando le istituzioni sono a rappresentanza elitaria: non importa se la gente non va a votare, purché gli interessi dei possidenti rimangano inalterati e garantiti. Lo scopo dell’organizzazione umana viene fatto coincidere con la produttività e il primato tecnologico, mentre la crescita dello Stato-nazione viene posta al di sopra – egemone – rispetto ai suoi “concorrenti”. Perché mai il prossimo decennio dovrebbe essere dedicato alla supremazia tra Cina e Usa, mentre gli altri 7 miliardi di terrestri starebbero a fare da spettatori o fiancheggiatori?

Mentre la dimensione geoetica si contrappone alla dimensione geopolitica, dominata dagli Stati-nazione di cui è intrisa la pratica e la disciplina delle relazioni internazionali, non si può che annotare come il nazionalismo – ostile a fissare limiti anche locali allo sviluppo – abbia costituito un ostacolo all’avanzamento dei negoziati multilaterali sul clima e tuttora, anche sotto la copertura delle guerre in corso, distolga più risorse verso le armi e i fossili che non verso la salute dell’intera biosfera.

Una certa speranza di modificare l’impianto nazionalista viene da un riconoscimento di uomini e donne in una propria storia più frugale, più comunitaria. Ma si tratta tuttavia di sub-nazionalismi, in buona parte vanificati nei loro obiettivi una volta incorporati nelle istituzioni dello Stato-nazione. A meno che nel lungo periodo possa nascere una traiettoria per cui la conservazione del clima possa rinsaldare l’autostima e la gratificazione dell’orgoglio nazionale. E’ in parte il caso di sub-nazioni come la Scozia o la Catalogna, o della costruzione di una “nazione ambientale” come fino agli ultimi anni sembrava poter diventare la costruzione della Ue, almeno fino a che ha prevalso la pace.

In conclusione, la mitigazione del clima può progredire solo se le politiche sono coordinate multilateralmente a tutti i livelli di governance e – io aggiungo – di movimento organizzato. Non sono tanto le istituzioni statali, ma le loro articolazioni a livello territoriale, municipale e cittadino, con il sostegno della democrazia diretta, a dover depotenziare il nazionalismo oggi imperante.

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